Incontro con Shady Hamadi il 22 novembre 2014 alle 20,30
IL S.A.E.
Segretariato Attività Ecumeniche
Gruppo di Novara
promuove un incontro sul tema
L'Isis e le primavere arabe
Siria e Iraq tra totalitarismi e desideri di libertà
UNA RIFLESSIONE ECUMENICA
Isis, i regimi autoritari e l’incontro delle civiltà
di Shady Hamadi (19 settembre 2014)
Di questi tempi si sentono troppe generalizzazioni sull’Islam. “E’ l’Islam la causa che porta al fondamentalismo”, “il mondo islamico non rinnega lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante“, “i musulmani in Europa, in quanto musulmani, quindi appartenenti a una religione che porta alla degenerazione, al radicalismo, sono un pericolo per la nostra società” , sono solo alcune delle frasi che ho letto in questo periodo. Addirittura, qualche discepolo de “Lo scontro di Civiltà” si inerpica in conclusioni affrettate, nelle quali si liquidano “le primavere arabe” come un processo già finito che ha lasciato spazio a “un inverno arabo”. Le società arabe, ”incompatibili con la nostra Civiltà”, sarebbero portate naturalmente al fondamentalismo religioso, in quanto vedono in noi, in quello che l’Occidente rappresenta, “il tumore da estirpare per arrivare alla costruzione di un califfato mondiale” (sostiene qualche Neoconservatore) e i due miliardi di musulmani sarebbero d’accordo con tutto ciò. Oggi, la persecuzione dei cristiani, cacciati dalla stato Islamico, è la prova finale che questi discepoli dello Scontro – definiamoli con questo termine – cercavano. Così, si moltiplicano le chiamate a una nuova crociata che con “una violenza incomparabilmente superiore” porti alla sconfitta l’Islam e, aggiungo io, alla conversione. A questa visione, direi apocalittica, è giusto contrapporre dei fatti. Il primo è che l’Islam non è un monolite ma ha molteplici sfaccettature. Un musulmano a Islamabad è differente da un musulmano di Damasco. Ciò detto, non possiamo neanche sostenere che un musulmano dei villaggi intorno a Homs sia uguale a un musulmano di Aleppo, questo a causa della diversa conformazione socio-religiosa che differenzia queste due città siriane.
Inoltre, è innegabile che l’interpretazione che ognuno di noi, me compreso, dà alla fede è differente. Dunque sostenere che “tutti i musulmani sono come quelli dello stato Islamico” è un abominio. Tempo fa, oltre 200 intellettuali arabi, lanciarono dalle pagine di Al Hayat – giornale arabo con base a Londra – un appello contro lo stato islamico dell’Iraq e del Levante che in Siria, prima ancora di entrare in Iraq, stava perseguitando la popolazione musulmana e combattendo soltanto contro le forze della rivoluzione, quasi avesse siglato una pax con il regime siriano. In quei mesi, lo Stato Islamico crocifisse musulmani accusati di apostasia, incarcerò numerosi attivisti, giornalisti e scrittori (il motore di qualsiasi società). Nessuno, nell’Illuminato Occidente, fiatò. Non si sentì una voce di condanna per quello che l’Isis stava facendo in Siria, mentre, dall’altra parte, i bombardamenti dell’aviazione di Assad continuavano (e continuano) su tutte le città siriane, indiscriminatamente.
Mi domando come si possa invocare un digiuno contro l’ipotesi dell’intervento americano ma non contro i bombardamenti aerei del regime siriano che stanno cancellando la Siria? Probabilmente, se il mezzo milione di sunniti costretti dalle milizie sciite di Hezboallah e dall’esercito regolare a lasciare Quseyr, Homs e altre località della valle dell’Oronte, fossero stati cristiani o appartenenti a qualche minoranza, magari le voci di condanna si sarebbero alzate. Forse ci si sarebbe accorti della pulizia settaria che è stata operata. Poco importa, il danno è fatto.
E’ interesse nostro, intendo del Levante intero, la costruzione di società libere dal fondamentalismo e dai regimi totalitari (che si professano, falsamente, laici e fanno della confessionalizzazione della società il loro strumento di controllo). Ulteriore passo per noi qui, in questa Europa spettatrice, sarebbe comprendere che le prime vittime del fondamentalismo sono i musulmani, perché sono i primi a pagare la scelta di non accettare il radicalismo religioso. Sempre i musulmani sono vittime di una retorica negazionista che non li riconosce vittime ma, al contrario, li accomuna ai carnefici.
In questi momenti, dobbiamo spingere verso l’incontro e il dialogo, anche se è sempre più facile odiare.
Seguirà dibattito.
L’incontro si terrà
SABATO 22 NOVembre 2014, alle ore 20,30
presso la Chiesa Evangelica Valdese-Metodista
via delle Mondariso 6, Cittadella dell’artigianato
NOVARA
Dove va la Chiesa?
Ringrazio Theo per questa sua testimonianza delle reazioni suscitate in Germania dalla revoca della scomunica alla fraternità San Pio X: ci aiuta a capire il motivo anche di una presa di posizione ufficiale da parte del governo tedesco. La vicenda, forse riportata, almeno dai nostri media, in modo non sempre imparziale, ha creato certamente turbamento in tutti noi e lascia aperti tanti interrogativi, soprattutto, come già ricordato in altra parte di questo numero, sull’eredità del Concilio Vaticano II. Faccio mio l’invito di Theo a cogliere l’occasione per un confronto sulla domanda circa la direzione che sta prendendo la Chiesa, che stiamo prendendo noi. Attraversiamo tempi bui, non dimentichiamo, però, il messaggio che viene dall’antico e sempre nuovo rito del lucernario che ci accingiamo a celebrare il sabato santo.
***
Come assiduo lettore di questo giornalino ho qualche scrupolo a pronunciarmi su un argomento delicato come quello delle ultime turbolenze causate dalla revoca della scomunica dei quattro vescovi della fraternità “San Pio X” da parte di Papa Benedetto XVI. Secondo me, in Italia la discussione sull’accaduto è stata più breve e segnata da una minor carica emotiva che in Germania. Provo a darvi una breve sintesi della reazione in Germania che continua tutt’ora ad agitare gli animi, non solo dei cattolici. Premetto che io personalmente condivido solo in parte le critiche dei miei connazionali. Dato che in questo mio scritto tante tematiche vengono solo accennate, queste righe forse possono invitare i lettori a mandare a Pier Paolo le loro considerazioni più approfondite in materia.
In un primo momento la reazione dei tedeschi alla revoca del Papa si riferiva quasi esclusivamente alla negazione della Shoah da parte del vescovo lefevbriano Richard Williamson, resa pubblica quasi simultaneamente in una sua intervista rilasciata alla tv svedese proprio in Germania. Sono rimasto soddisfatto della protesta collettiva dei miei connazionali che, almeno in questo punto, sembrano avere imparato qualcosa dal loro recente passato vergognoso. Infatti in Germania la negazione dell’Olocausto è ufficialmente un crimine. In quest’ottica si deve vedere anche la telefonata della Merkel al Papa che, però, qui da molti è stata ritenuta superflua e poco opportuna. Tengo a precisare che nessun tedesco pensa che il “nostro” Papa abbia delle tendenze naziste. Così – dopo una fase spontanea piena di emozioni fortissime - la critica si è concentrata sulla disorganizzazione e non - comunicazione del Vaticano all’interno e verso il mondo. Come mai il Papa non è stato al corrente della visione incredibile sulla Shoah di questo vescovo, che si era espresso in questo modo già altre volte? Con riferimento ai meccanismi della politica molti tedeschi, dopo questa vicenda, si aspettavano dal Vaticano anche conseguenze personali nell’ambito dei consulenti e “collaboratori” del Papa, quasi come atto di credibilità ed umiltà.
Mentre gli animi si sono ormai placati per quanto riguarda la persona del vescovo Williamson (per me un caso, scusate, patologico), la discussione si è spostata verso un’analisi più dettagliata della fraternità San Pio X il cui ritorno nella Chiesa cattolica al Papa sta a cuore ovviamente in modo particolare.
È giusto ed anche compito del Papa cercare di far tornare le pecore perdute all’ovile, ma a che prezzo?
Dallo studio della storia e dell’indirizzo teologico della fraternità risulta che le sue idee hanno manifeste tendenze (a dire poco) antimoderniste, antiecumeniche ed antigiudaiche. Il punto centrale del dissenso dei suoi membri è il categorico rifiuto del riconoscimento del Concilio Vaticano II. A dire il vero, c’è anche un risvolto positivo di questo “caso”: ha riportato l’attenzione su un Concilio che ai suoi tempi ha suscitato tanto entusiasmo nel mondo cattolico e che forse oggi non è nemmeno conosciuto dai giovani. Ricordo bene e con un po’ di malinconia l’atmosfera, carica di speranza, che si viveva in quegli anni.
I documenti di questo Concilio prevedono, fra l’altro, l’apertura della Chiesa cattolica ad altre Chiese e religioni ed un invito ai gruppi all’interno della Chiesa cattolica stessa che, per differenti motivi sono emarginati. Per questi contatti è indispensabile un dialogo costruttivo. In Germania questa necessità viene sentita in modo particolare.
Dopo secoli di battaglie feroci, cristiani cattolici e luterani ormai convivono in ottimi rapporti. Ricordo che dopo la guerra, quando ero ragazzo, gli alunni cattolici e quelli luterani frequentavano scuole diverse e che anche nel tempo libero ogni gruppo stava per conto proprio.
Per il nostro passato storico particolare, il rapporto delle due Chiese con gli ebrei rimane sempre un compito delicato e anche moralmente importantissimo.
In Germania, inoltre, vivono tanti musulmani con i quali il dialogo delle Chiese cristiane deve per forza andare avanti.
Questo atteggiamento di dialogo dai lefevbriani è rifiutato con ostinazione e purtroppo molte delle reazioni della fraternità al generoso gesto del Papa sono tutt’altro che incoraggianti (“andiamo avanti, saremo noi a convertire il Vaticano”).
Questo spiega anche perché, forse per la prima volta, c’è stata una presa di posizione unanime di tutti i vescovi e dei gruppi laicali contro la revoca della scomunica.
In questa situazione molti critici ricordano che Benedetto XVI già aveva destato irritazione e dissenso fra i luterani, ebrei e gli stessi cattolici tedeschi, sottolineando che la Chiesa luterana non è una Chiesa nel senso pieno della parola, e riproponendo una preghiera per la conversione degli ebrei nell’elenco delle intercessioni del Venerdì Santo.
In seguito le critiche si sono allargate a una discussione molto vivace, a volte anche polemica sulla domanda: “Dove va la Chiesa?”
Tanti tedeschi si chiedono perché il Papa non apra le braccia della Chiesa, almeno “tendenzialmente” con la stessa misericordia e con lo stesso amore paterno ad altri gruppi di fedeli al margine della Chiesa, per esempio ai divorziati e risposati, ai preti che hanno dovuto lasciare il loro ministero, alle donne nella Chiesa, agli omosessuali o a quelli che hanno opinioni diverse sul controllo delle nascite o sul celibato dei preti.
Certo, la Chiesa non farebbe bene a rincorrere ingenuamente le mode del momento (al famoso Zeitgeist, lo spirito del tempo) spesso molto fragili e di breve durata.
E non è neanche realistico pensare che questi problemi si possano risolvere in poco tempo e senza compromessi, ma tanti si aspettano dalla Chiesa più disponibilità a un dialogo costruttivo e magari anche più coraggio nella realizzazione delle riforme nello spirito del Concilio Vaticano II. L’obiettivo della Chiesa deve essere quello di stare più vicino ai disagi e alle paure dei fedeli.
Il Papa e la Chiesa Cattolica in Germania hanno perso credibilità e fiducia sia presso i fedeli sia come Autorità morale universale: in queste settimane molti cattolici tedeschi irritati o delusi si sono fatti cancellare dal registro del comune che documenta l’appartenenza religiosa, in tal modo non pagheranno più le tasse per la Chiesa; una reazione, quest’ultima, secondo me, poco matura.
Per quanto riguarda il Papa, in Germania stanno tornando i dubbi che molti gruppi cattolici “progressisti” avevano quando il cardinale Ratzinger fu eletto Papa: “È un uomo intelligente, un teologo eccellente, ma sarà anche un buon Papa?”
Padre Werenfried, un frate francescano che è un po’ la mia guida spirituale nei periodi di crisi, ha concluso una sua predica sulla vicenda della fraternità San Pio X con una citazione di Gustav Mahler che mi piace molto: “La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere” .
Spero che il fuoco trovi sempre tanto ossigeno e potere illuminante.
Per noi domenicani il rosario è “la “ preghiera che dovrebbe scandire le nostre giornate, un appuntamento da vivere non solo come un impegno, ma un momento della giornata in cui mettersi all’ascolto della Parola per farla crescere dentro di noi e per riuscire, dopo averla contemplata, a ridonarla a chi ci vive accanto. Un appuntamento ho detto, quindi un tempo di amore in cui cercare, desiderare, chiedere, adorare… Ma poiché il rosario, nella sua semplicità, è tutt’altro che una preghiera semplice, vale la pena rifletterci un po’ insieme per imparare a conoscerla meglio e quindi a pregarla meglio. Anzitutto è bene ricordare che il rosario non è una preghiera rivolta a Maria, ma a Gesù per mezzo di Maria. Cosa significa? Che per pregare bene Gesù è bene farsi aiutare da sua madre, perché nessuno come lei l’ha accolto, generato, amato, servito, obbedito, accompagnato... ascoltato. Sì, perché il rosario è una preghiera di ascolto. Il fatto che si dicano e si ripetano per 50 volte l’Ave Maria, per cinque volte il Padre nostro e il Gloria, e che troppo spesso si recitino queste preghiere “di corsa”, ci fa perdere di vista il vero significato di questa preghiera: lungo tutto il rosario il Signore ci parla e, nello scorrere dei misteri che nei vari giorni vengono pregati, ci ricorda il disegno di amore con cui ha amato e continua ad amare tutta l’umanità e ciascuno di noi. In questo tempo di Quaresima, e, presto di Pasqua, proviamo ad ascoltare cosa ci dicono i misteri dolorosi e gloriosi. Chiaramente la Parola di Dio è così ricca che può offrire infiniti spunti di riflessione: io provo a dirne qualcuno.
Dalla preghiera nell’orto degli ulivi, alla flagellazione, alla coronazione di spine, alla salita al calvario, alla morte in croce e poi alla risurrezione, all’ascensione, alla pentecoste, all’assunzione di Maria e alla gloria in cielo di tutti, mi è sembrato di ritrovare un filo che lega tutti questi momenti ed è “il corpo”. In un tempo in cui il corpo è spesso oggetto di cure e attenzioni al punto da farlo diventare, più o meno inconsciamente, un idolo, viene da chiedersi: come ha vissuto il suo corpo Cristo? E quindi come viverlo da cristiani?
“Entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare o Dio la tua volontà” (Eb. 10, 5-7). “Un corpo mi hai preparato”: nel corpo e attraverso il corpo Cristo è cresciuto, ha gioito, amato, parlato e predicato, guarito, dormito e mangiato, insomma ha vissuto e si è fatto conoscere e ha fatto conoscere il Padre. E poi col corpo che sudava sangue ha detto ancora SI’ al Padre, si è lasciato baciare da Giuda e ben sapendo che lo stava tradendo, ha accettato che il suo corpo venisse ingannato con un segno di amore che per lui diventa di condanna. Poi conosce il dolore fisico delle percosse, l’umiliazione degli sputi, lo strazio della flagellazione, la fatica di chi non ce la fa più nel portare la croce su fino al calvario, e il dolore delle carni trafitte, lacerate, appese per tanti lunghissimi minuti fino al momento della morte. Mi sembra di poter dire che il corpo per Gesù è stato il luogo per dire al Padre e a tutti noi il suo amore totale, incondizionato, senza ripensamenti né ritorni.
Né Marco, che quest’anno ci educa col suo Vangelo, né Luca, né Matteo ci parlano di Maria. Giovanni invece ci dice: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre…” (Gv.19,25).
STAVA. Quante cose ci dice questa sola parola. Maria era lì, presente col suo corpo che sicuramente provava tutta la sofferenza del figlio, perché si adempisse la profezia di Simeone: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc.2,25). Ma era lì per dire ancora, anche lei, come Gesù: “Padre… ciò che vuoi tu” (Mc.14,36). Era lì perché lei che aveva generato e tanto amato quel figlio doveva e voleva accogliere il suo corpo senza vita e deporlo nel grembo della terra, perché nuovo Adamo, dalla terra risorgesse e le venisse restituito secondo quanto lui stesso aveva detto: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv.2,19). Era lì, perché in lei per prima doveva compiersi quel mistero di sofferenza che si prolunga sino alla fine dei tempi nel Corpo di Cristo che è la Chiesa.
I vangeli non ci dicono se Maria abbia visto Gesù risorto. Forse erano anche e soprattutto per lei le parole che Gesù ha rivolto a Tommaso: ”Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv.20,29). Certo, anche nei misteri gloriosi il corpo ci interpella: Gesù risorto conserva nel suo corpo i segni della passione (S. Tommaso), ma non viene riconosciuto (Maddalena e discepoli di Emmaus) se non dopo aver chiamato per nome Maria, e aver spezzato il pane. Passa attraverso i muri e soprattutto penetra le nostre paure. Gesù ascende al Padre col suo corpo e la Chiesa ci dice che anche Maria è stata assunta col suo corpo in quello spazio che per noi è difficile immaginare e che per convenzione chiamiamo “Cielo”, ma che non sappiamo dove e come sia. Sappiamo però che anche noi un giorno ci potremo andare e anche noi riavremo il nostro corpo: questo corpo in cui abbiamo vissuto, amato, sofferto e da cui dobbiamo prima o poi separarci. E intanto? Intanto sarebbe importante vivere da risorti, perché noi nel battesimo siamo già morti e risorti con Cristo e, come Lui dopo la risurrezione, ci è chiesto di portare i segni della nostra passione, ma nella gioia della luce pasquale. Troppi cristiani sono tristi, depressi, nevrotici (di cui la prima sono io), troppo ripiegati su se stessi e le proprie fatiche e non si accorgono dell’immensa grazia che Gesù Cristo ci ha già fatto con la sua morte e risurrezione. E allora per essere e divenire quelle creature nuove che il Padre si aspetta per ciascuno di noi, oltre a partecipare all’Eucarestia che ci assimila al Figlio, a vivere i sacramenti come momenti di rinascita e adesione al disegno di Dio, lasciamoci anche aiutare dalla preghiera del Rosario che ogni giorno ci ricorda quanto siamo stati amati e continuiamo ad esserlo in ogni momento. Maria ci aiuti e ci accompagni nel cammino della vita e ci insegni a ritrovare la gioia di vivere e il desiderio di dire anche noi fino in fondo: “Padre, non la mia ma la tua volontà sia fatta”.
Buchi e rammendi
“Un chassid del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. Individuata una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontano dalla fontana. Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se stesso: “E meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio”. Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. “Un rammendo!”, esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia.”
Questo racconto chassidico è tratto da quel delizioso libricino di Martin Buber che è “Il cammino dell’uomo”; l’autore commenta la sentenza dello zaddik precisando che non si tratta del rimprovero di un rabbi integralista… “oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è opinabile. L’opposto del “rammendo” è il lavoro fatto di getto. Come realizzare un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima unificata” In sostanza il fallo del discepolo sta appunto nell’aver voluto intraprendere una faticosa lotta spirituale senza un’anima unificata... Un po’ come chi presumesse di costruire un ponte con mattoni, sabbia e acqua e poi visti i crolli cercasse di correre ai ripari con la calce. “Ma significherebbe fraintendere completamente il significato di “unificazione dell’anima” il tradurre il termine “anima” diversamente da “l’uomo intero”, corpo e spirito fusi insieme. L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse. Il versetto della Scrittura: “Tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze!” il Baal-Shem lo interpretava così: “quello che si fa, va fatto con tutte le membra”, cioè: bisogna coinvolgere anche tutto l’essere corporale dell’uomo, nulla di lui deve restare fuori. Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito insieme, allora la sua opera è opera d’un sol getto.”
Questo non ricorda magnificamente anche a voi San Domenico e i suoi nove modi di pregare?
Ora non è mia intenzione dilungarmi sulla personale distanza che mi separa da questa unità interiore: son tutto un rammendo io, questo è sicuro, ma se c’è una cosa, credo, che può davvero imbrogliarci, è proprio l’ansia di perfezione! Infatti non ho mai dato molto credito a quelle “tecniche” che si prefiggono questi obbiettivi: si possono chiamare coi nomi più affascinanti, ma infine sempre di tecniche si tratta. Possono essere utili forse, ma mai quanto la grazia!
Sudando sopra un manualetto universitario di filologia, un giorno ho pensato che il lavoro di Dio altro non fosse che il lavoro di un grandissimo filologo sempre intento a ritrovare e a ricomporre la sua opera originale partendo dalle nostre migliaia di frammenti dispersi, nello sforzo di ripulirla da quella stratificazione di errori e sciocchezze che tutti ci portiamo dietro. Giovanni chiama Cristo “il Verbo”, lui potremmo dire che è l’originale a cui ritornare, autografo ed “edizione critica” insieme (ricomposto dallo Spirito Santo)
Invece mi trovo davanti un fatto di cronaca tristissimo: in un terribile incidente sul lavoro (uno dei tanti purtroppo, solo un po’ più disastroso) perdono la vita diversi operai in una grande fabbrica dove non veniva rispettata nessuna norma di sicurezza… C’è un processo: i parenti delle vittime si costituiscono parte civile, probabilmente cercano giustizia più che vendetta. I loro cari lavoravano in quella fabbrica ed essi si sentivano tranquilli e orgogliosi: “Sai mio fratello lavora lì…” Dicevano…Ora le loro vite sono distrutte, frantumate come i loro progetti. In tribunale si presentano tutti con le foto dei loro cari stampate sulle magliette… Questo mi fa storcere un po’ il naso, mi sembra troppo televisivo: non assomiglia a una delle tante manifestazioni di quel bisogno di esternarsi che riempie i salotti tv e alimenta altri tormentoni mediatici? Ma forse è solo la manifestazione di un tremendo senso di colpa. Quale? Ma quello di chi sente improvvisamente di non aver protetto la persona amata e ora teme di non riuscire nemmeno a ottenere giustizia per salvare almeno la sua memoria. Questa tragedia non ha solo sconvolto i loro affetti e i loro progetti, ma le loro stesse vite: qualcuno confessa che in famiglia non vanno più d’accordo fra di loro, non riescono più a ricostruire le loro vite, a riprendere il lavoro... Si rompono fidanzamenti… Una tragedia nella tragedia!
Non so perché, ma questa vicenda mi ricorda terribilmente la condizione dei discepoli di Gesù dopo la sua morte: anche loro erano fieri di Lui, del loro Maestro, avevano fatto tanti sogni su di Lui e poi viene la tragedia, una tragedia forse troppo annunciata… Al suo arresto inizia la dispersione: “Noi credevamo…” “Noi speravamo…” Forse dietro gli sguardi delusi affiorano anche le reciproche accuse..(del tipo: “neanche tu hai fatto nulla per salvarlo”). Sotto la croce l’evangelista Giovanni metterà la Madre di Gesù e “quel discepolo che Egli amava”, ma non è certo lavoro di cronista il suo. Vaneggiamenti saranno ritenuti dagli apostoli le testimonianze delle donne al sepolcro e quando il Risorto in persona apparirà loro, essi spaventati lo crederanno sulle prime un fantasma venuto forse a tormentarli, a mettergli il sale nella piaga… Giovanni ci ricorda che la prima apparizione del Risorto avviene “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei”. Timore forse è un eufemismo!
Sarà poi Gesù invece a farsi mettere il dito nella piaga dopo aver detto loro ancora una volta “Pace a voi”.
Posando lo sguardo (qualcuno anche le dita) su quello squarcio che rivela il cuore, aperto da mani a loro non troppo estranee, ecco che anche i loro rammendi non hanno più senso: non c’è più niente da rammendare, il buco è troppo grosso e ancora una volta sulla scena rimangono solo in due: la miseria e la misericordia.
Infatti l’Apostolo Paolo ci dice che se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede e noi siamo ancora nei nostri peccati (1Cor 15,17). Infatti è proprio il Verbo che ci dice: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 15,30). Alla fine non c’è tecnica o “religione”* che tenga ed è unificato, salvato solo chi come Maria è disposto ad incontrare proprio il volto di quel crocifisso lì e a lasciarsi stracciare l’anima a brandelli.
* da “religio” (legare assieme, di nuovo; raccogliere insieme)
P.S. Pare che tempo fa in Nigeria sia accaduto un fatto per noi occidentali assolutamente incomprensibile: una voragine enorme si porta via un pezzo di strada sulla Oguta Road nella desolata periferia di Onitsha e incredibilmente intorno a quella voragine sorge un quartiere vivacissimo che trae vita proprio da quel buco: prima arrivano braccianti e torme di ragazzini disposti a trasportare carichi e camion oltre il buco, poi proprietarie di cucine portatili, venditori di sigarette, di bibite, poi sarti, barbieri, ciabattini... Pure qualche ciarlatano guaritore! Poi risorgono officine meccaniche, sorgono Hotel per offrire pernottamento agli autisti in attesa (forse anche qualche “svago” tanto per ammazzare il tempo). Se andate da quelle parti forse adesso il buco non ci sarà più, ma se ci fosse ancora, non vi venga in mente di dire… “Ma perché non riempite il buco?” Non si sa mai! Potrebbe esserci anche qualche killer lì per caso… tanto per ammazzare il tempo. (se ne volete sapere di più potete leggervi “Ebano” del compianto reporter polacco Ryszard Kapuscinsky, Feltrinelli, 2002, pp.255-261).
Troppe parole creano lo stesso vuoto del troppo silenzio.
Troppe parole creano solamente un confuso, contraddittorio, indecifrabile boato.
È rumore con lo scopo di fare rumore. È rumore che non comunica.
E io non lo sopporto più!
Tranquilli, non inizierò il solito rosario di lamentele nei confronti di chi ci governa, affinché ancora una volta possa essere definito pessimista – catastrofista – cattocomunistia – antirazzista, deglobalizzato – denuclearizzato.. No, è proprio questo che non sopporto più.
Sono stufo di rappresentare una bandiera che non ha più ragione di sventolare,
di sostenre un ideale che non ha più spazio per realizzarsi,
di assumere una posizione che non sa come e dove collocarsi.
Ho bisogno di disintossicarmi dalle convinzioni indiscutibili e dalle verità indubitabili.
Devo prendermi una vacanza dai troppi sepolcri imbiancati, dai furbetti, dagli arroganti, dagli esperti, dagli intelligenti.
Nel nostro mondo sprechiamo le parole per dare forza alle opinioni, alla propaganda, alle leggi, alle ideologie (magari con gli attributi della religione).
Usiamo le parole per affermare le proprie verità tutti convinti che solo le nostre sono verità e ciò che non coincide con esse è menzogna o ignoranza, è follia o perversione, è danno o dannazione.
Sono stanco di sentire tutte queste voci che ci fanno diventare schizofrenici (non è grave sentire le voci nella propria testa, la schizofrenia vera è sentire tutte quelle voci fuori dal cervello, voci così invadenti da penetrarlo e farlo a pezzi).
Il nostro parlare è preso in questo vortice senza più alternativa. È soprattutto l’impossibilità di alternative che manda in corto circuito il mio cervello. E anche se continuo a credere e sperare che ci siano alternative ai sensi unici, per ora, alzo bandiera bianca.
Qui mi sa che abbiamo tutti bisogno di risparmiare parole e cedere spazio al silenzio.
Magari tra due o più silenzi ci accorgiamo che abbiamo ancora voglia di parlarci perché anche il troppo silenzio (consenso) ci fa male. Ci sono problemi e situazioni gravi, disumane, e ingiuste di cui parlarne è doveroso e necessario perché tutti noi siamo parte dello stesso problema; siamo tutti sulla stessa barca. Ma c’è bisogno che questo parlarne sia comunicare, non semplicemente dire, affermare, strillare, imporre. Mi è sempre piaciuta la descrizione dell’esperienza del profeta Elia che sente la presenza/passaggio di Dio non nel vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco, ma nella brezza di un vento leggero (cfr. 1Re 19).
è l’esperienza della comunicazione che ti rianima e ti restituisce la possibilità di riprendere il cammino.
È la risurrezione. Così, semplicemente con la freschezza di una mattina di primavera. Senza parole.
Essere apostoli: una vita non un lavoro
(Pubblico volentieri questa lettera di Guido, quasi fosse un articolo, perché mi sembra capace di dire con semplicità e attraverso l’esperienza personale, con le diverse tonalità di uno stato d’animo “al lavoro”, il senso e la passione del laico domenicano. Guido scrive a me, ma io la giro a tutti voi perché so che spesso la storia di ogni uomo sa comunicare più di tante teorie e principi)
Ciao Irene,
..finalmente è arrivato Dominicus (la rivista della Provincia San Domenico in Italia, ndr) e questo numero in particolare mi ha colpito per come sottolinea l’importanza di rendere ragione non solo della speranza che è in noi, ma soprattutto della coerenza con il nostro essere cristiani, coerenza sempre più sfaldata, erosa da una società ormai laicizzante.
La Chiesa è sempre più vista come un obsoleto palafreno, facendo ricadere sull’istituzione tutta una serie di problematiche, di conflitti che non le appartengono, pratica decisamente più facile ed economica rispetto ad un reale esame di coscienza.
È vista solo in funzione di quelli che vengono chiamati paletti e che in una società come la nostra non dovrebbero nemmeno sussistere, a detta di coloro che riescono a non farsi indottrinare o imbambolare dalla Chiesa. Io ho due colleghi così.. uno fondamentalmente gnostico.. l’altro disilluso, convinto in passato che la preghiera funzionasse come merce di scambio (io prego tanto e voglio tanto…), le sue richieste non hanno trovato accoglienza (secondo lui) e questo l’ha portato a diventare un mangiapreti. A volte mi ritrovo a discutere anche per nove ore al giorno con questi elementi difendendo la mia posizione di cristiano, credente, praticante... ci sono delle volte che non è affatto facile.
E qui mi ricollego all’importanza di quello che hai (avete) scritto in merito alla formazione, memore anche delle parole dell’Aquinate: “..studiare fa parte della gioia di essere pienamente vivi…”. Personalmente porto avanti questo modo di pensare da ben prima che facessi i primi passi all’interno dell’Ordine: è il modo in cui siamo cresciuti in parrocchia, ed è il modo in cui ci aveva formati all’epoca fra Giovanni Allocco. Il formarci è la cosa più normale, quello che dovrebbe essere il programma di studi per l’anno di noviziato per me in realtà è stato tutto materiale che mi ha permesso di fare discernimento, per capire se era veramente ciò verso cui mi sentivo chiamato. La Regola quindi è la prima cosa con cui mi sono confrontato e i testi di p. Lippini e del Vicaire mi sono serviti non solo a conoscere meglio il nostro padre Domenico, ma a mettermi anche in discussione sul passo che sentivo (e sento) di dover intraprendere (il tutto sempre in confronto continuo con Cinzia, mia moglie).
Vivo la formazione come qualcosa di necessario, di indispensabile per poter offrire in qualche maniera un servizio: quello che imparo mi sforzo di metterlo in pratica con la condivisione e con il servizio. Sono convinto che lo studio ci serva non tanto per far vedere quanto sappiamo, o la capacità che abbiamo di affrontare certi argomenti difficili, ma bensì a spaccare gli argomenti difficili in modo da trasmetterli in maniera più facile e comprensibile a chi ci sta attorno: vivo in continuazione questa situazione a catechismo. Faccio il catechista ormai da molti anni e da alcuni sono diventato responsabile e quindi mi è stato affidato l’incarico di fare catechismo anche ai miei catechisti e mi accorgo dell’importanza che ha non il far vedere quanto so, ma il come lo trasmetto.
Ho appena incominciato una nuova sfida, i nostri scout non hanno la guida spirituale e quindi ho iniziato a collaborare con loro (non come guida, non è mio compito) nella formazione, e ho iniziato a fare liturgia al Reparto (11-16 anni): difficilissimo.. ma bellissimo! Dopotutto il nostro primo compito è seminare.. spetterà ad altri raccogliere.
Riuscire a cogliere la bellezza dello straordinario in quello che in realtà appare solo come ordinario.
Quello di cui mi sto accorgendo, confrontandomi anche con realtà di altre parrocchie è la difficoltà di mettersi in formazione: il tutto viene sempre demandato ai presbiteri, loro sono i depositari della cultura e della fede, noi marionette e questo mi porta spesso a “scontrarmi” con queste mentalità. Come cristiano, prima di tutto e come Domenicano sento il bisogno di non essere una semplice pedina, ma come dice anche in questo caso san Tommaso “Istruire qualcuno per condurlo alla fede è il compito di ogni predicatore e anche di ogni credente”, diventa quindi naturale e normale formarsi per portare la Parola, essere apostoli significa avere una vita non un lavoro. Parlo prettamente della catechesi perché è il mio ambito insieme alla liturgia, ciò non toglie che questo sia il mio comportamento e il mio atteggiamento tutti i giorni anche nella vita comune. Faccio tesoro di quello che s. Domenico diceva ai primi predicatori: “andate con sicurezza, perché il Signore vi darà le parole da dire e sarà con voi e non vi mancherà nulla”, ed è quello che p. Mario, l’attuale parroco, ci ricorda ogni volta: “lasciate che lo Spirito soffi”.
Ti chiederai il perché di questo lungo monologo (o sproloquio?): per iniziare con te un confronto e un dialogo, uno scambio di vedute, un modo anche questo di fare formazione e crescere.
Sperando che queste parole di fra Timothy Radcliffe ci accompagnino sempre nel nostro cammino e soprattutto nelle nostre riflessioni: “l’Ordine è sempre stato fiorente quando abbiamo vissuto con la libertà di cuore e di mente di Domenico”.
Un continuo ricordo nella preghiera che nella distanza ci unisce e ci rende fratelli in Cristo e in Domenico.
A pane ed acqua
Sento intorno a me tanto sconforto perche il Concilio Vaticano II è stato ed è ancora disatteso. Anche io, che da venti anni quasi vivo ad Agognate, avendo dato anima e corpo per una forma di vita che fosse più comunitaria e meno gerarchica, non esulto di fronte a tante affermazioni e prese di posizione. Nei miei scherzi più amari chiedo ad Irene se ha conservato i veli che si usavano una volta per andare in chiesa perché fra breve torneranno ad essere necessari. Guardo la nostra chiesetta da dove è stato tolto il cancelletto che chiudeva le balaustre a segnare la divisione netta fra lo spazio Sacro e quello profano… Le balaustre ci sono ancora, un cancello si può sempre rifare…
Poi… ecco il punto, mi dico, c’è un “prima” e c’è un “poi” ed è vero che su quello che c’è in mezzo il giudizio appartiene a Dio, ma è altrettanto vero che il discernimento è messo nelle mani di ognuno.
Seguo da anni un cammino ecumenico; interesse suscitato? Beh! Diciamo scarso. Poi sento gridare allo scandalo se i Documenti prodotti anziché avanzare sulle posizioni di unità, che implica perlomeno anche un ricoscimento di una certa eguaglianza, sembrano far tornare indietro. Ma dove eravamo quando c’era da andare avanti?
Una grande lezione di ecumenismo l’ho imparata dal pastore Gian Maria Grimaldi. Mi diceva tra le altre cose: “non voglio fare l’animale da esposizione… mi si tira fuori per far bella figura nelle Celebrazioni importanti e poi mi si lascia da parte, voglio parlare con qualcuno, voglio confrontarmi…” Quel qualcuno non ero io, perlomeno non io da sola svincolata dalla mia appartenenza, altrimenti sarebbe stata un’amicizia privata, cosa santa ed utile anche all’ecumenismo ma non sufficiente!
Dove eravamo quando c’erano da tracciare i percorsi che dalla dottrina andavano alla vita?
Il Concilio non è stato un lampo con cui lo Spirito Santo ha folgorato la sua Chiesa come Paolo sulla via di Damasco, è stato un percorso, suscitato dallo Spirito, in cui uomini e donne hanno creduto e per cui hanno dato tempo ed energia.
Permettetemi, per spirito di parte, di citare Maria Vingiani, fondatrice del S.A.E. (Segretariato Attività Ecumeniche), di cui sono la ir-responsabile per il gruppo di Novara! Chi ha conosciuto questa donna, può non aver condiviso le sue idee, ma sicuramente sarà rimasto contagiato dal suo entusiasmo, dalle sue convinzioni, dalla sua capacità di spendere una vita intera da quando ha conosciuto il cardinale Roncalli allora a Venezia, poi papa Giovanni XXIII. Papa che ha avuto la grazia di indire il Concilio Ecumenico Vaticano II, concilio caratterizzato da una natura pastorale, dove non si proclamarono nuovi dogmi. Si volle aprire la Chiesa alla lettura dei segni dei tempi.
Dove eravamo? Dove siamo? Ancora un’altra Quaresima, tempo di deserto, tempo di digiuno. Forse abbiamo sorriso un po’ troppo presto anche di tante pratiche che ci sapevano di stantio.
A pane e acqua e camminare, un giorno, tre giorni, un mese, fino a… Santiago di Compostela, fino alla propria sconfitta, o fino alla propria fame.
Perché l’annuncio da accogliere è sempre lo stesso: “convertitevi e credete al Vangelo”, il Vangelo che è Gesù Cristo. La Buona Notizia della nostra salvezza.
Ci autocomprendiamo come salvati che vivono in rendimento di grazie? O noi (io e la mia pancia piena) ci autocomprendiamo piuttosto come salvatori, come coloro che sì, hanno capito e finalmente, con l’avallo del Concilio, possono insegnare?
Ora che mi è stato finalmente riconosciuto che sono Sacerdote, Profeta e di stirpe regale potrò mica limitarmi a pulire la chiesa? Mi si darà un po’ di spazio in più!
Lo spazio ci è stato dato ed è grande, tanto quando grande è il mondo.
Allora, come nei tempi in cui la storia sembra chiudersi, esercitiamo la nostra profezia e pronunciamo una parola che ha conosciuto la fine e ha visto anche la pietra tombale rotolata. Viviamo ogni attimo il nostro sacerdozio ordinando a Cristo tutte le cose se abbiamo creduto che in Lui sono state create e redente.
E se ci siamo riconosciuti di stirpe regale col sacrificio di Cristo, ricordiamoci anche, come diceva Bonhoeffer, che questa Grazia è a caro prezzo, Dio l’ha pagata con l’annientamento in Cristo.
Non riteniamoci svantaggiati, in ogni tempo della Chiesa ci sono stati piccoli e grandi tradimenti. Santa Caterina, una giovane mantellata domenicana (laica, non c’erano ancora le suore), va ad Avignone a trattare con il Papa Gregorio XI per l’interdetto alla città di Firenze e la scomunica ai capi, affronta il tema delle crociate, lo sollecita a tornare a Roma, siamo nel 1376.
Abbiamo meno mezzi? No, solo le nostre gambe hanno fatto poca strada.
E allora coraggio! A pane e acqua e camminiamo.
Leggiamo i Documenti del Concilio, se proprio vogliamo essere zelanti preoccupiamoci anche di tutta la strada fatta per arrivarci e camminiamo perché le strade si formano sotto i nostri piedi, e la chiesa “Popolo di Dio” si forma nella fatica di chi ha accolto una chiamata e fa della sua vita ogni giorno una risposta.
Ci trovi la Pasqua nel deserto, come gli israeliti di fronte al Mar Rosso, lì dove le strade si chiudono e per noi il Signore ha aperto anche il mare.
Auguri
L’uomo è irrimediabilmente Caino? La violenza è parte dell’uomo: ne siamo solo condizionati o ne siamo anche e soprattutto responsabili? Il conflitto, così presente nella vita di tutti i giorni, sia privata che sociale, è espressione di questa violenza dilagante: è possibile gestirlo? E’ possibile trasformarlo in un momento di crescita umana per tutte le parti coinvolte?
La Commissione italiana di Giustizia e Pace dell’Ordine ha pensato di offrire un momento di formazione per la gestione dei conflitti, attraverso un “laboratorio”, spazio di incontro e di confronto in cui riflettere insieme sulle domande iniziali e cercare percorsi di soluzione positiva dei conflitti.
In marzo, ad Agognate, si è tenuto appunto questo laboratorio: in 15 persone, tra cui la sottoscritta, provenienti da gruppi e città diversi, ci siamo riuniti, e, insieme a Patrizia Morgante, nostra counselor, abbiamo trascorso la giornata interrogandoci, attraverso riflessioni, role-playing e altre attività, sulla natura dei conflitti e sui possibili percorsi per imparare a gestirli.
Abbiamo capito che i conflitti sono inevitabili, perché siamo diversi, abbiamo storie, desideri, progetti diversi, e questo crea conflitto, ma non deve necessariamente sfociare in una guerra, in cui uno vince e l’altro soccombe. Abbiamo imparato che è importante, soprattutto per persone non più giovani, uscire da certi schemi di tipo educativo: ci è stato insegnato che non sta bene arrabbiarsi, che una persona per bene non litiga e controlla le proprie emozioni. Nell’ambito religioso, poi, i condizionamenti possono essere ancora più forti: “Se sei un buon cristiano porgi l’altra guancia, sii mite ed umile, non puoi essere violento, devi solo amare e perdonare”.
Tutte cose sacrosante, che se non passano però attraverso il riconoscimento del conflitto e delle emozioni che questo suscita in ciascuno di noi, tra cui la rabbia, difficilmente arrivano ad una reale esperienza e ad una testimonianza trasparente e convincente. Guardare in faccia le proprie emozioni, riconoscerle, accettarle, ma non agirle: questo è il primo passo per una gestione positiva di un conflitto. Questo fa sì che io impari a conoscermi e a capire fino a che punto una situazione mi faccia soffrire e perché, e quanto io possa essere disponibile a concedere in una trattativa con l’altro.
Il passo successivo è imparare ad esprimere il proprio dissenso, e poi cercare di conoscere il pensiero dell’altro, senza paura, ma con la consapevolezza che la diversità mi possa solo arricchire e che insieme possiamo trovare un accordo che rispetti le esigenze di entrambi.
Come mia ulteriore riflessione posso dire di aver imparato a distinguere tra violenza e passione: se la violenza è desiderio di imporre ciò che voglio io, la passione è la capacità di mettersi in gioco, di patire sì, ma per una condivisione più piena e consapevole. Credo che il miglior antidoto alla violenza sia la passione, e che abbiamo bisogno di persone appassionate che abbiano davvero a cuore la vita e il benessere di chi li circonda e della terra in cui vivono.
Quest’esperienza di laboratorio è stata molto positiva e tutti i partecipanti hanno espresso il desiderio di ritrovarsi per fare un ulteriore cammino di riflessione e di crescita, e penso sia importante farla conoscere ad altri gruppi e fraternite domenicane, perché questa cultura si diffonda e ci aiuti a costruire e diventare PONTI di comunicazione, di dialogo, di incontro e di condivisione per arricchirci e crescere insieme.
[Per ulteriori informazioni sui corsi “soluzione dei conflitti” potere contattare fra Domenico Cremona ad Agognate]
Altro...
Il 2009 è un anno importante per lo scenario politico mondiale.
Partendo, a gennaio, con l’insediamento del nuovo Presidente degli USA, passando, a febbraio, per Israele, proseguendo, aprile-maggio, in India, per arrivare al voto di UE e Iran in giugno. Tutti paesi democratici, cioè dove il popolo, per definizione, è sovrano. Solo per definizione. Il bombardamento mediatico sull’elezione di Barak Hussein Obama non regge il confronto con i successivi appuntamenti politici. Eppure se si guarda queste elezioni democratiche dal punto di vista dell’importanza del popolo sovrano, abbiamo che la più grande democrazia del mondo è l’India che nei mesi di aprile e maggio (le elezioni lì sono spalmate su un mese con voto elettronico) ha chiamato alle urne 714 milioni di elettori; con lo stesso criterio al secondo posto c’è l’UE con quasi 400 milioni di aventi diritto al voto, e solo al terzo posto gli USA. Tuttavia le elezioni in India, come del resto quelle della UE, non hanno avuto la rilevanza mediatica degli USA e francamente non ne capisco le ragioni. Forse perché questa democrazia non l’ho ancora ben capita: non capisco perché ci sono democrazie di serie A e democrazie di serie B e soprattutto trovo poco democratico stabilire tali criteri. È solo un problema mediatico? Forse sì, ma non va sottovalutato; del resto si sa che nei paesi democratici i mezzi di informazione determinano i risultati elettorali. Ma non solo: attraverso il bombardamento mediatico, si stabiliscono criteri e valori di importanza spesso non oggettivi. Così la democrazia più importante del mondo, con un’economia e uno sviluppo paragonabile solo alla (non democratica) Cina, con il 40% della popolazione sotto i 35 anni, ha uno spazio marginale nel nostro sistema “democratico” di informazione. Io non sono un docente di geopolitica, ma non occorre essere esperti in materia per capire che l’elezione di Mr. Obama è importante sullo scenario mondiale solo in relazione con gli altri eventi democratici (e non) degli altri paesi. Il voto elettorale in India, in Europa, in Israele, in Iran (e quello pakistano del settembre 2008) ha un peso maggiore del singolo voto degli USA (attualmente ripiegati sulla propria crisi economica)...
Tutto questo votare e la manipolazione mediatica correlata è ragion sufficiente per affermare la democrazia? Anche in Iraq (elezioni provinciali febbraio 2009) e in Afghanistan (presidenziali il prossimo 20 agosto) assistiamo oggi ad elezioni democratiche ma è abbastanza per affermare che Iraq e Afghanistan sono ora paesi democratici e liberi?
E nella democratica-cristiana Italia con una legge elettorale (legge nº 270 del 21 dicembre 2005) definita “porcata” dallo stesso ministro autore (Roberto Calderoli) che democrazia viviamo? Si può ancora parlare di democrazia quando questa è disgiunta dalla giustizia, dalla cultura, dal senso civile, dal rispetto della dignità umana? Ha ancora senso parlare di democrazia quando l’indifferenza, il pregiudizio, il razzismo, la violenza, diventano “principi non negoziabili” all’interno di un sistema democratico?
Rimaniamo in tema di elezioni, delle elezioni appena svolte: la campagna elettorale nel nostro paese democratico è perennemente in corso, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana attraverso i talk show. Poi negli ultimi mesi precedenti alle elezioni ecco la democrazia che si manifesta in tutto il suo splendore: manifesti di tutti i tipi e misure con faccioni ammiccanti e sornioni invadono i muri e le strade delle città. L’affissione selvaggia dei manifesti elettorali è la cartina tornasole del livello di maleducazione e della pronunciata mancanza di senso civile e di come la politica e i suoi rappresentanti sono i primi a non rispettare le leggi (anche per cose molto più gravi delle affissioni elettorali). In Italia la legge n. 212 del 4 aprile 1956, regola i tempi, le quantità, le misure e, soprattutto, gli spazi consentiti per le affissioni elettorali, ma nessun partito rispetta tale legge.
La polizia municipale è incaricata di verificare le infrazioni, ma non di rimuovere i manifesti abusivi; compito che spetta ad una squadra speciale che nelle principali città va sotto il nome di “ufficio del decoro urbano” (recentemente il sindaco di Roma ha chiuso tale ufficio). E anche quando raramente la squadra specializzata del decoro urbano interviene, con tutta probabilità il manifesto abusivo asportato viene sostituito da un altro in poche ore. Dunque per tutto il periodo elettorale non si può sperare di liberarsi di tutti quei faccioni più o meno in posa. Ma cosa succede dopo? Chi viola le regole viene punito? No. Il nostro è un paese democratico che non può punire i politici. Le sanzioni vengono stabilite non in base alle infrazioni effettivamente riscontrate, ma per così dire a forfait, in proporzione della consistenza elettorale dei vari partiti (una specie di sistema proporzionale). Ma, soprattutto, dopo un po’ di tempo viene generalmente varato un condono (votato a grande maggioranza) che permette a tutti di cavarsela sborsando pochi euro. E continuiamo a credere che questa è democrazia? E che differenza c’è allora tra democrazia e partitocrazia?
“Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno Stato di organizzarsi sono arrivato alla conclusione che la democrazia è il sistema più democratico che ci sia.
Dunque, c’è la democrazia, la dittatura… e basta. Solo due. Credevo di più.
La dittatura in Italia c’è stata e chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia.
Io, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che quando nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa vuol dire, ma romano io?!...
D’altronde, diciamolo, come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che “democrazia” significa “potere al popolo”. Sì, ma in che senso potere al popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c‘è scritto.
Però si sa che dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” che dopo alcune geniali modifiche fa sì che tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni, e che se lo incontri ti dice giustamente: “Lei non sa chi sono io!”. Questo è il potere del popolo.
Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Il referendum, per esempio, è una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha effettivamente qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire solo “Sì” se vuol dire no, e “No” se vuol dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Ma il referendum ha più che altro un valore folkloristico perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati… tutto resta come prima e chi se ne frega.
Un’altra caratteristica fondamentale della democrazia è che si basa sul gioco delle maggioranze e delle minoranze. Se dalle urne viene fuori il 51 vinci, se viene fuori il 49 perdi.
Dipende tutto dai numeri. Come il gioco del Lotto.
Con la differenza che al gioco del Lotto il popolo qualche volta vince, in democrazia... mai!
E se viene fuori il 50 e 50? Ecco, questa è una particolarità della nostra democrazia. Non c’è mai la governabilità.
È cominciato tutto nel 1948. Se si fanno bene i conti tra la Destra – DC, liberali, monarchici, missini… – e la Sinistra – comunisti, socialisti, socialdemocratici, ecc. – viene fuori un bel pareggio. Da allora è sempre stato così, per anni!
Eh no, adesso no, adesso è tutto diverso. Per forza: sono spariti alcuni partiti, c’è stato un mezzo terremoto, le formazioni politiche hanno cambiato nomi e leader. Adesso… adesso non c’è più il 50% a destra e il 50% a sinistra. C’è il 50% al centro-destra e il 50% al centro-sinistra. Oppure un 50 virgola talmente poco… che basta che uno abbia la diarrea che salta il governo.
Non c’è niente da fare. Sembra proprio che il popolo italiano non voglia essere governato. E ha ragione. Ha paura che se vincono troppo quelli di là, viene fuori una dittatura di Sinistra. Se vincono troppo quegli altri, viene fuori una dittatura di Destra. La dittatura di Centro invece... quella gli va bene.
Auguri!!!”
La democrazia. Giorgio Gaber – Sandro Luporini 1996
Spesso basta poco, un gesto, un sorriso, una giornata trascorsa in modo diverso, per farci riprendere vigore nel cammino faticoso di ogni giorno, nei rapporti che con il tempo si cristallizzano, nel desiderio di essere e fare per noi e per gli altri.
Basta:
una giornata fuori porta
di Alessandra Bentivoglio
Qualche volta è necessario rompere gli schemi abituali e così domenica 10 maggio il consueto incontro mensile di fraternita si è svolto “fuori porta”: siamo andati a Vinchio, un paesino del Monferrato, dove si trova la casa che ha dato i natali alla mamma di Pier Paolo (grazie di cuore a lui per la sua ospitalità!).
Arrivati e depositate le scorte alimentari in casa, ci siamo precipitati tutti nell’adiacente prato-cortile dove chi ha iniziato a giocare, chi a chiacchierare, chi a guardare i prati circostanti.
Dopo esserci “ambientati”, ecco arrivata l’ora della Messa, celebrata in casa da Padre Ennio.
Una Messa solo per noi, in casa… avevo la sensazione di essere come i discepoli di Gesù, nella semplicità e nel raccoglimento intorno ad un tavolo, a celebrare e a condividere l’Eucaristia.
Al momento della preghiera spontanea avrei voluto gridare con tutto il cuore e con tutto il fiato “grazie, grazie, grazie a tutti voi e al Signore che ci (e mi) ha concesso una così semplice, ma profonda ed intensa giornata”, ma le lacrime scorrevano dagli occhi senza controllo (quando sono immersa nella gioia o nel dolore profondo faccio così!!!) e non riuscivo a parlare. Il pranzo all’aperto è stato un’altra scoperta di condivisione: scherzando e ridendo abbiamo pranzato e gustato le squisite torte fatte da Daniela (un grazie anche a lei, che oltre a saperci egregiamente prendere per la gola, è sempre molto sorridente e disponibile).
E dopo aver nutrito il corpo, bisognava “nutrire” la mente: così Padre Ennio ci ha parlato del “dacci oggi il nostro pane quotidiano” (quest’anno la fraternita ha preparato tutti gli incontri nell’analisi del Padre Nostro).
È stato bello, seduti tutti nel prato a parlare del Signore, a parlare di noi, della nostra storia. Mi sembrava davvero che le nostre parole non avessero confini e se ne andassero ovunque..lì non c’erano mura..anche in quei momenti, anche lì ho sentito l’emozione del discepolo: tutti riuniti nel Suo Nome!!!
Il resto del pomeriggio è stato libero: qualcuno è rimasto a poltrire sull’erba, altri sono andati a spasso per il paese con Pier Paolo come cicerone.
A concludere la giornata, prima del viaggio di ritorno, abbiamo recitato il rosario, ancora tutti seduti nel prato.
Vorrei essere capace di trasmettere la profondità di quei momenti così semplici eppure così intensi, in cui avverti di essere alla presenza del Signore.
Tutti stanchi, ma rilassati e sereni e con negli occhi uno sguardo diverso!
E’ stata – secondo me – la giornata più “toccante” che la fraternita abbia avuto da quando ne faccio parte.
Questa prima esperienza “fuori porta” mi auguro non resti isolata, ma che possa ripetersi presto!
Grazie, grazie di cuore a tutti per avermi fatto questo splendido regalo!!
Viaggio in alto mare
Nella Bibbia si ripete 365 volte l’invito “Non temere”. Una volta per ogni giorno dell’anno: c’è un progetto per ciascuno di noi, un progetto che prende il via tutte le volte che ci fidiamo di Dio, per il quale “neanche un capello del vostro capo andrà perduto”.
È facile fidarsi quando tutto fila liscio, quando ci sentiamo forti ed al sicuro, problematico quando siamo nelle difficoltà.
Chi di noi non si è mai trovato sballottato da “venti contrari” nel mare della vita? E chi di noi non ha vissuto momenti di paura, di delusione, di scoraggiamento?
“…La violenta tempesta continuava ad infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta” (At. 27, 20).
È il racconto dell’ultimo viaggio di Paolo, quello che lo condurrà a Roma per essere sottoposto al tribunale di Cesare, e che ci narra la tempesta ed il naufragio con l’approdo all’isola di Malta.
Un racconto per noi significativo che fra Antonio Visentin, maestro dei novizi ed assistente della Fraternita di Chieri, ha scelto come riflessione per i partecipanti alla giornata di incontro delle fraternite del Piemonte qualche settimana fa.
Sono stati sottolineati: la situazione di prigionia di Paolo che, nonostante non sia più libero di decidere per sé e per la sua vita, è tuttavia un uomo libero, l’atteggiamento di benevolenza del centurione Giulio, i venti contrari e la navigazione pericolosa, il coraggio di Paolo ed il suo discorso di speranza, l’invito a prendere cibo, necessario per la salvezza, la necessità che tutti si salvino e non solo pochi.
La realtà del laicato e quella di alcune fraternite, come anche la situazione dell’Ordine e della Chiesa cattolica, sembra rappresentare bene l’immagine dei “venti contrari alla navigazione”: età avanzata, numeri sempre più esigui dei membri, senso di abbandono e scoraggiamento.
Nel racconto di Atti è chiaro il capovolgimento della mentalità del numero: basta una persona per salvare l’umanità. La presenza di Paolo salva tutti perché il centurione impedisce ai soldati di buttare in mare ed uccidere gli altri prigionieri. È ancora la presenza e la parola di Paolo che incoraggia tutti a prendere cibo, a prendere dalle sue mani il cibo per la vita spirituale. Paolo celebra “l’eucaristia” davanti a tutti e tutti rende presenti. Ciò che ci unisce è il sapere tutti di avere bisogno di cibo.
Come applicare tutto questo alla nostra vita di laici domenicani?
Considerando la nostra vocazione ad essere predicatori del vangelo, annunciatori di speranza, come viviamo l’impegno assunto come cristiani e come domenicani?
Nella situazione di disagio, di insicurezza economica e sociale, la tentazione forte è quella di isolarci, chiuderci in una illusoria salvezza personale o familiare e chiudere gli occhi a quanto succede intorno a noi. Ho negli occhi e nel cuore le immagini di tanti gommoni carichi di persone che cercano uno spazio in cui trovare riposo, speranza, respiro per continuare la vita.
Viviamo in una società multietnica dove ormai si mescolano popoli, razze, lingue e culture, ma se apriamo il giornale, o accendiamo la tv, non mancano mai notizie su episodi di razzismo e di intolleranza nei confronti degli stranieri che vivono in Italia, ed ora anche la legge italiana si attrezza per essere più restrittiva e selettiva per l’accoglienza degli stranieri, “persone spesso vittime di pregiudizi ed usate come capri espiatori quando aumentano l’insicurezza economica ed il disagio sociale”. Così cita il manifesto per una campagna nazionale contro il razzismo, l’indifferenza e la paura dell’altro.
Solo riconoscendo a tutti il diritto ad una vita migliore, saremo capaci di vivere noi stessi una vita migliore.
Essere uomini e donne di speranza è essere capaci di mettere le mani là dove c’è il male con la certezza che il male non ci danneggerà. Abbiamo scelto di rispondere liberamente alla chiamata del Signore ad essere domenicani, allora seguiamo l’esempio di San Domenico che visse per anni fra gli eretici del Meridione della Francia, annunciando la Verità, condividendo con loro il pane della vita e pregando “che ne sarà dei peccatori?”. La nostra salvezza non sarà mai a prescindere da quella di tutti. Buona navigazione!
SAE - Segretariato Attività Ecumeniche
«Disse allora lo Spirito a Filippo: “Va’ avanti, e raggiungi quel carro”: Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?” Quegli rispose: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?” E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui…»
(cfr. At 8, 29-31)
Salire sul carro dell’altro e fare un tratto di strada insieme; il Convegno di Primavera a cui ho partecipato con Francesca, nuova socia del SAE, mi ha lasciato il senso di un ecumenismo che è un tratto di strada insieme. Le strade arrivano alle loro svolte, e ciascuno può continuare la sua perché l’incontro c’è stato, come ha concluso il presidente Meo Gnocchi. Ci resta la capacità di vivere in tensione, di “stare dentro”, cogliendo il Kairòs, il tempo forte, tempo favorevole, che questo Dio ci ha dato per ascoltare la sua Parola nella pluralità in cui si esprime.
Francesca Barbano
Il 9 e 10 maggio scorsi si è tenuto a Pontenure, vicino a Piacenza, il convegno di primavera del SAE cui quest’anno è stato assegnato un tema particolarmente interessante, oltre che di forte attualità: “DIRE INSIEME COSE ANTICHE E COSE NUOVE - Un Evangelo, diversi linguaggi.” In effetti durante le due giornate del convegno gli interventi che si sono susseguiti hanno dato corpo a questo “dire insieme” ed ai diversi linguaggi che - se da un lato rispecchiano le differenti tradizioni confessionali - d’altro canto hanno aperto nell’ascolto reciproco un dialogo i cui molteplici spunti e stimoli si sono realmente intrecciati in modo estremamente fecondo. Realmente chi ha partecipato può dire di aver percepito e vissuto quanto ad un certo punto esplicitamente affermato nella relazione del presidente Mario Gnocchi: forse davvero, al di là dell’attuale momento di crisi (ma ripercorrendo la storia del SAE è difficile trovare momenti in cui non si è parlato di crisi!!), l’ecumenismo è ad una svolta; non si tratta di trarre per sottrazione quello (poco o tanto che sia) che rimane in comune, occorre far parlare in reciproco ascolto e dialogo le diverse tradizioni a partire dalle loro più profonde radici senza paura di trovarsi anche profondamente diversi ma accogliendosi invece reciprocamente (Placido Sgroi).
E’ un passaggio nodale quello che stiamo vivendo oggi, anche nel nostro paese, in cui le chiese evangeliche storiche e la chiesa cattolica sono chiamate a misurarsi con altre realtà cristiane emergenti. Vanno considerate con grande attenzione la sempre più significativa presenza dei fratelli ortodossi (Dionisios Papavasileiou), alle cui espressioni di vita ecclesiale e pastorale non siamo abituati, così come il dilagare delle esperienze evangelicali e pentecostali, abituate ad esprimersi con altri linguaggi, una realtà carismatica appassionata e viva, lontana talora dai dibattiti teologici e impegnata a vivere con intensità l’esperienza quotidiana dello Spirito (Stefano Bugliolo e Roberto Vacca).
Non a caso il Convegno si è poi chiuso con una relazione sul futuro della Chiesa in cui sarà sempre più difficile coniugare il messaggio cristiano con le diverse culture che la globalizzazione rende presenti in ogni angolo della terra (Brunetto Salvarani).
Come di consueto nell’assemblea di primavera la riflessione comune su un particolare aspetto del dialogo ecumenico si è accompagnata con la riflessione sull’appartenenza al SAE. L’assemblea associativa annuale ha visto anche la discussione sull’attività svolta nei suoi molteplici aspetti, dalle iniziative realizzate nella precedente sessione estiva ed a quelle in programma per la prossima, alle modalità di comunicazione, anche attraverso il lavoro per il nuovo sito. La discussione sul bilancio consuntivo e preventivo è senza dubbio un momento di grande importanza per la vita dell’ associazione: un momento di conoscenza e di confronto, di valutazione dei risultati conseguiti e di progettazione del futuro. Anche in questa occasione, forse specie per chi - come me - partecipava per la prima volta, è stato molto interessante ed istruttivo seguire lo svolgersi della vita dell’associazione attraverso la testimonianza ed il dibattito fra le persone che insieme rappresentano le diverse anime e le differenti sensibilità presenti e dialoganti.
Il pensiero va infine con gratitudine agli amici del SAE di Piacenza che con grande dedizione hanno curato l’organizzazione di tutti gli aspetti del soggiorno e che, prima della partenza, ci hanno offerto anche un bella occasione di conoscenza di un sito significativo ed importante del loro territorio: nel pomeriggio della domenica infatti ci è stata infatti data la possibilità di effettuare una visita al Collegio Alberoni di Piacenza. Si tratta di un vasto complesso architettonico, adibito a seminario a metà settecento dal Cardinale Alberoni, originario della città, che alla sua morte lasciò all’Istituto una dote cospicua grazie alla quale il collegio prosperò e - sebbene sorto precipuamente per la formazione del clero - nel corso degli anni ha annoverato fra i propri alunni scienziati, ingegneri, giuristi e medici, filosofi, eruditi e uomini politici di nota.
Oltre ad ospitare i seminaristi, l’Istituto dispone di una ricchissima biblioteca e di un osservatorio astronomico (che purtroppo in questa occasione non abbiamo avuto il tempo di vedere!). Interessantissima è stata la visita alla pinacoteca, che comprende un centinaio di quadri fra i quali un “Ecce Homo” di Antonello da Messina davanti al quale ci siamo fermati in un momento di intensa meditazione.