GAMBADURA
Il sole stava ancora scherzando tra i rami degli alberi come se godesse della lunga agonia di un giorno troppo lungo; indifferente ai problemi degli uomini. Il sole, la neve o la pioggia non hanno sentimenti e non si lasciano influenzare dall’umore degli uomini. Le stagioni si rincorrono con cadenze regolari, insensibili ai bisogni degli uomini. Esiste tuttavia un cielo più in alto che è attento ai bisogni umani e non rimane indifferente al grido del povero. La storia narra che un giorno di fine estate, quando il sole che scalda il nostro pianeta non si mostrava così crudele, un bambino dall’aria triste si avviava, come di solito, verso una chiesetta poco frequentata alla periferia del paese. Il bambino camminava lentamente, con le mani nelle tasche dei pantaloncini che mettevano a nudo le sue gambe. Una gamba, la destra, sembrava un osso vestito di pelle e rigido come un bastone. Portava avanti con piccoli calci un barattolo arrugginito che risuonava, falsamente allegro, sul selciato della strada. Nel suo viso non vi era nessun tipo di emozione, sembrava indifferente a quella specie di gioco. Non era né contento né scontento. Strano vedere un bimbo portare avanti quel barattolo con puntigliosità. Aveva un volto troppo serio che i bambini non hanno. Il barattolo fungeva da palla e serviva al giovane per esercitare, senza una gran voglia, la gamba destra, più corta e rinsecchita. Pochi sapevano che il bimbo si chiamava Mario perché tutti, in paese, lo chiamavano Gambadura a causa di quella specie di gamba che si era sviluppata solo in altezza ed era rimasta magrissima e senza articolazioni. Mario non aveva mai sofferto per questo soprannome che gli ricordava la sua invalidità. Se ne era fatta una ragione quando, intorno ai sei anni, il vecchio prete della Chiesetta, gli aveva detto che non era grave avere una gamba dura. “ È importante che tu non abbia la testa dura o il cuore duro, il resto conta poco”. Se il soprannome non lo infastidiva, lo contrariava invece il sentirsi spesso escluso dai giochi degli altri bambini. Questa esclusione gli riportava alla memoria l’incidente che lo aveva menomato. In quei frangenti rivedeva il carro, tirato da due buoi, traballare sotto il peso dei sacchi di grano.
Aveva solo tre anni quando il carro si era rovesciato gettando su di lui oltre sei quintali di grano. Ricordava perfettamente il senso di soffocamento che gli aveva procurato tutto quel frumento. Alcuni sacchi nel cadere si erano aperti ed una pioggia di mille e mille chicchi di grano l’aveva coperto sommergendolo senza lasciargli neppure il tempo di gridare. Nella sua memoria era rimasto vivo il tintinnio del grano sul selciato, il senso di asfissia, e il lungo susseguirsi di giorni in cui vagamente ricordava medici e infermieri che entravano ed uscivano da una stanza tutta bianca. Fu in quella stanza che sentì, per la prima volta, pronunciare il nome Gambadura. Tutti parlavano sotto voce e lui ricordava quel vocabolo che veniva ripetuto più volte: “Gli rimarrà la gamba dura”. Da quella stanza Mario era uscito vivo, la sua gamba no. Essa era morta per sempre.
L’incidente aveva commosso tutto il paese, sia per la tenera età di Mario, sia perché tutti ricordavano la tragica morte della sua mamma, che aveva perso la sua giovane vita nel parto. Ne avevano parlato tutti i giornali nazionali in quanto alla puerpera era stato annunciato che il suo piccolo avrebbe potuto venire alla luce solo a scapito della vita della madre. Una strana malformazione richiedeva la morte del bambino o quella della madre. Mentre il marito assolutamente voleva che si salvasse la vita della moglie, questa non voleva sentire ragioni e aveva preteso, qualora i medici fossero stati costretti a fare una scelta, che si salvasse la vita del suo piccolo. Non solo il marito ma tutto il paese desiderava che la donna vivesse. Inutili furono i pianti del povero Beppe che tentò in tutte le maniera di convincere la sua giovane sposa:
“di figli ne potremo avere altri…
Vuoi lasciare un imbranato come me con un figlio appena nato?
Come farò senza di te a mandare avanti il podere con un bambino…
Allora debbo pensare che non mi vuoi bene”
Non c’erano argomenti che potessero convincere la donna. Niente da fare. Concetta non voleva morire ma se si era costretti a fare una scelta sentiva più umano e più giusto che venisse salvato il bimbo. Ad ogni supplica del marito Concetta ripeteva accorata: “Lui non ha chiesto di nascere e noi lo abbiamo voluto. Ora lui c’è, lo sento muoversi e scalpitare. Se io muoio non è un omicidio, significa che qualcosa non funziona in me. Se permettessi di uccidere questo bambino non potrei più vivere in pace, sarei complice di un omicidio. Come puoi chiedere ad una madre di uccidere la sua creatura? Tu chiedendomi di far uccidere nostro figlio, mi trasformi da madre in una assassina”.
La donna, come previsto dai medici, era morta, ma Beppe non era mai riuscito ad amare quel bambino come si conviene a un padre. Mario non aveva colpa se la sua mamma era morta nel darlo alla luce. Tuttavia, per suo padre, Gambadura fu e rimase sempre l’unico vero responsabile della morte della sua amata Concetta. Forse un amore più sincero ed un impegno più attento, da parte del padre, avrebbe evitato il disastro del rovesciamento del carro. Forse un soccorso più pronto, più sollecito, più premuroso, ne avrebbe attutito le conseguenze. Invece il taciturno Beppe s’era accorto che il figlio era sotto il grano soltanto qualche minuto dopo il ribaltamento del carro. All’ospedale trovarono al bambino un principio di asfissia e la gamba sinistra irrimediabilmente perduta.
Mario, che ormai tutti, compreso il padre, chiamavano Gambadura, a dieci anni era bello e vispo come si conviene ad un bambino di quell’età. Era dotato di una grande sensibilità e trasferiva nel sogno ciò che non poteva realizzare materialmente. A Gambadura sarebbe piaciuto giocare al pallone. Se ne stava ore ed ore attaccato alla radio quando si trasmettevano partite di calcio. Si mordeva le mani quando la sua squadra preferita perdeva e sprizzava euforia quando questa vinceva. Conosceva a memoria i nomi di tutti i grandi campioni e, nei suoi sogni infantili, si vedeva sano e forte, conquistare coppe su coppe, nel ruolo di un grande centravanti. Sperava sempre che un giorno la sua gamba sarebbe tornata normale e progettava il suo avvenire come se per lui giocare al pallone fosse stato il lavoro più facile e più congeniale.
Si dirà che ciò non è strano in un ragazzo, ma in realtà il suo babbo era preoccupato, perché Gambadura non rifletteva abbastanza sulla sua infermità e continuava a sognare un avvenire che, senza ombra di dubbio, gli era precluso. Quel figliolo, da quando era nato, non gli aveva procurato che guai. Un giorno che Beppe era più nero del solito, aveva voluto togliere ogni illusione a Mario e gli aveva gridato che la smettesse di pensare al pallone, perché la sua gamba non sarebbe mai guarita.
“Non ti accorgi di essere un bambino diverso dagli altri?
Perché non provi a sognare cose concrete,
Pensa a sogni che si possono realizzare con la testa piuttosto che con le gambe!
Prova ad impegnarti più con la matematica che con il pallone.
Studia con più impegno perché, prima o poi il tuo babbo, andrà dove se ne è andata tua madre”.
Questi ed altri rimproveri non scalfivano per nulla il ragazzo. Erano come acqua che scivolava via sulla pietra. Non era vero che Gambadura non rifletteva su quanto gli suggeriva il padre, ma la voglia di diventare un grande centravanti era più forte di ogni predica del padre. Lui sapeva, sentiva, era certo che, prima o poi sarebbe diventato un grande calciatore.
In quel giorno di fine estate la vita del bambino cambiò improvvisamente e lo confermò nel suo desiderio di diventare un calciatore.
Gambadura arrivò alla chiesetta quando ormai il sole stava tramontando ed entrò. Vi era una grande statua della Sacra Famiglia. La Madonna, San Giuseppe e il Bambino Gesù erano raffigurati a grandezza naturale. Il Gesù bambino era alto quasi come Gambadura e si trovava al centro tra Maria e Giuseppe. Più volte il bambino si era soffermato a pregare davanti a loro, e più volte aveva trovato consolazione nella preghiera, ma quella sera non aveva voglia di pregare. Si mise seduto su una sedia con il viso tra le mani, imbronciato. Non voleva ripetere le solite preghiere. Se avesse parlato avrebbe soltanto emesso un lamento o un grido. La mattina gli amici non lo avevano fatto giocare neppure in porta, come qualche volta gli era concesso, e suo padre gli aveva nascosto l’apparecchio radio. Mario si sentiva escluso dal mondo che amava. In quella chiesetta, che sentiva come un rifugio, nessuno lo aveva mai scacciato. Il silenzio però era solo esteriore perché dentro di sé sentiva la guerra. Niente era secondo i suoi desideri. Gli mancava la mamma che non aveva neppure conosciuta; gli mancava l’affetto del padre, chiuso nel suo dolore e impegnato in un lavoro che lo lasciava alla sera sfinito; gli mancavano gli amici che parlavano volentieri con lui ma che non lo invitavano quasi mai a giocare con loro; gli mancava la scuola, chiusa per le vacanze estive, gli mancava il vecchio prete che era ricoverato da più di un mese in ospedale. Inoltre, da qualche giorno, gli mancava anche l’apparecchio radio che suo padre aveva nascosto e di conseguenza gli mancavano le trasmissioni sullo sport.
Preso da questi pensieri Gambadura non si era accorto che un bambino si era seduto vicino a lui. Questi, dopo un breve tempo di silenzio, mise una mano sulle spalle di Gambadura e con un filo di voce lo salutò:”Ciao Mario”. Gambadura guardò il nuovo arrivato e con aria stupita gli chiese: “Chi sei? Non ti ho mai visto da queste parti”. Il bimbo straniero sorrise, ma non rispose alla domanda, si alzò e, sorridendo invitò Gambadura a giocare con lui. “Guarda, ho appena ricevuto in regalo un pallone e se vuoi possiamo provarlo”. Mostrò un pallone che sembrava appena uscito dalla fabbrica. Anche Gambadura sorrise ma rimase seduto. L’improvvisa apparizione di quel bambino se, da un lato, lo rallegrava, dall’altro gli incuteva un certo timore. Lui non lo aveva mai visto e questi lo aveva chiamato con il suo nome di battesimo. Come faceva a saperlo se in paese tutti lo chiamavano Gambadura? E poi lo straniero vestiva in una maniera davvero singolare. Non aveva come tutti i bimbi dei pantaloncini e una maglietta ma vestiva una specie di tunica inadatta ad un bimbo di dieci anni. Gli sembrava un chierichetto pronto per andare a servire la Messa. Rimandando indietro il magone che lo aveva assillato fino a quel momento Gambadura riprese:
“Da dove vieni e come ti chiami?
“Mi chiamo Jeshua e vengo da un paese lontano, ma dai, non fare tante domande, vuoi o non vuoi giocare con me?”
“Certo che voglio” - rispose prontamente Gambadura. Poi gli venne ancora un dubbio e sorridendo riprese:
“Ma come farai a giocare al pallone vestito in quella maniera?
“Non ti preoccupare, non ti preoccupare, vieni”.
Jwesua correndo lo precedette nel prato adiacente alla chiesa iniziando a calciare il pallone in una maniera così goffa che Gambadura si mise a ridere e allegramente disse:
“Passa la palla a me che ti faccio veder come si gioca”.
Ricevuto il pallone Gambadura iniziò a correre come non aveva mai fatto. Gli sembrava di volare. Il pallone passava dalla gamba destra a quella sinistra, poi lo alzava e con la testa lo rigettava lontano. Invano l’altro ragazzo tentava di toglierlo, oramai Gambadura sembrava un cerbiatto che agilmente scalava una montagna. Jeshua non riusciva stargli dietro e quando Gambadura finalmente gli ripassò il pallone questi invece di prenderlo con i piedi lo raccolse con le mani. Al ché Gambadura gridò:
“Ma dove vivi? non sai che il pallone non si prende mai con le mani? Tiramelo che ti faccio vedere”.
Ricevuto il pallone lo fermò e lo scalciò lontano usando stranamente la gamba malata. Dopo aver dato il calcio avvertì che qualcosa non funzionava come prima e con sua grande meraviglia si accorse che la gamba malata non era più un osso rivestito di pelle ma era tornata normale. Era sparita la rigidità, ritornata la carne e i muscoli rispondevano come se fossero stati in continuo allenamento. Lo stupore della cosa lo lasciò senza fiato. Si fermò, guardò, tastò, sollevò, la gamba, e dall’emozione cadde a terra incredulo. Intanto Jwesua gli si era avvicinato e con gli occhi che gli brillavano, iniziò a beffeggiarlo:
“Ti sei già stancato. Dai poltrone, tirati su e ripassami il pallone”.
Gambadura guardò il ragazzo con intensità ed improvvisamente notò che quel bambino rassomigliava stranamente al piccolo Gesù della statua in chiesa. Si stropicciò gli occhi, non riusciva a credere a ciò che intuiva. Possibile che il piccolo Gesù fosse venuto a giocare con lui? Si alzò di scatto e non fece nessuna domanda. Qualcosa di strano era successo ed ora non aveva voglia di indagare oltre. Desiderava giocare e questo fecero i due bimbi fino a quando il sole era ormai scomparso all’orizzonte. Finito il gioco si salutarono ma Jeshua prima di andar via consegnò il pallone a Gambadura dicendogli:
“Questo tienilo tu e riportalo qui quando vuoi ancora giocare con me”. Poi corse via velocemente.
Gambadura che in vita sua non aveva mai posseduto un pallone sembrava scoppiare dalla felicità. Guardò il nuovo amico che scompariva dietro la chiesa e rigirando il pallone tra le mani provò ancora a calciarlo. Con suo grande sorpresa la gamba malata era tornata dura. Si sedette pensando di aver fatto un sogno magnifico, ma rigirando tra le mani il pallone che il bimbo straniero gli aveva regalato, intuì che qualcosa di straordinario era avvenuto. Si affrettò a ritornare a casa. Aveva desiderio di raccontare la sua avventura al padre. Dovette tuttavia trattenere la voglia di parlare perché il padre, stranamente, non era ancora rientrato a casa. Beppe arrivò che era già notte fonda. Gambadura si era appisolato su una sedia fuori dell’uscio di casa in attesa del padre. Quando questi arrivò il bambino si accorse subito che non stava bene. Beppe aveva la mano destra fasciata e tutto il braccio legato al collo con un grande fazzoletto. La voglia di raccontare ciò che gli era accaduto si smorzò subito. Comprese che più che parlare doveva ascoltare, capire, ciò che era successo al padre. Beppe intanto, più taciturno che mai, era entrato in casa e si era messo seduto vicino al tavolo. Chiese al bambino un bicchiere di vino che bevve lentamente senza dire una parola. Anche Gambadura si sedette vicino al padre. Avrebbe voluto fargli una carezza ma sapeva che al padre quelle “affettazioni”, così lui le chiamava, non piacevano, per cui rimase in silenzio finché il padre finì di bere.Poi, come parlando a se stesso e intercalando il suo dire con l’esclamazione: “Sono uno stupido” raccontò che si era tagliato la mano con la falciatrice. Stupidamente si era distratto e se non fosse accorso Lorenzo ora avrebbe una mano in meno. Guardò tristemente il bambino e, per la prima volta nella sua vita, con la mano sana accarezzò il figlio.
“Non siamo di certo messi bene noi due” – disse - “tu hai una gamba dura ed io mi sono rotto una mano. Quando vai in chiesa prega la tua mamma che ci aiuti, perché io non so più dove sbattere il capo”. Senza aggiungere altro e senza mangiare nulla si alzò dalla sedia e, trascinando le gambe, iniziò a salire lentamente le scale che portavano alla sua camera da letto. Anche Gambadura si coricò senza mangiare nulla. Prese il pallone che gli aveva regalato Jeshua e si addormentò abbracciandolo.
Il giorno dopo Beppe sembrava un altro. Gambadura non ricordava di essere mai stato chiamato Mario dal padre, né di averlo visto sorridere o rivolgersi a lui in maniera gentile. Non lo aveva mai picchiato, non gli aveva mai fatto mancare nulla, ma sorrisi, gentilezze o carezze, non facevano parte del loro rapporto. Quella mattina, malgrado avesse la mano legata al collo, Beppe era diverso. Aiutò il bambino a preparare la colazione, si sedette vicino al figlio e gli raccontò del suo incidente, della paura che aveva avuto di perdere la mano, di come andava il suo lavoro. Gambadura non sapeva che dire, non era abituato a parlare con il padre, ma sarebbe volentieri saltato sulle sue ginocchia per riempirlo di baci. Ascoltò attentamente, assentendo, con gli occhi brillanti di gioia, i discorsi del padre, e quando questi si alzò dicendo che sarebbe andato ancora dal dottore a farsi medicare la ferità, tutto d’un fiato gli gridò.
“Lo sai che io ieri ho giocato con un bambino straniero a pallone?”
Il padre lo guardò con aria interrogativa e improvvisamente triste il suo volto, osservò la gamba del figlio e malinconicamente disse:
“Va bene, va bene, so che giochi sempre al pallone, ma ti prego Mario, dai retta al tuo babbo: Non pensare troppo a giocare. Il pallone non fa per te e tu lo dovresti sapere”.
“Sì, lo so, ma ieri è avvenuta una cosa strana. Nel giocare con quel bambino io non avevo più la gamba dura, anzi correvo più di lui”.
Beppe, che si era già messo il cappello per uscire, tornò indietro, si levò il cappello e sedette. Con la mano buona lo attirò a sé e lo fece sedere sulle sue ginocchia. La sua voce tremava mentre dolcemente diceva:
“Perdonami se sono stato un padre poco attento a te, ma la morte della tua mamma, il tanto lavoro ed un carattere chiuso, non mi hanno mai permesso di starti molto vicino. Tu però ci credi che il babbo ti vuole bene? Allora dammi retta, non pensare più al pallone ed impegnati a studiare perché, purtroppo, con quella gamba malata, non potrai mai diventare un calciatore”
Il bimbo si alzò di scatto dalle ginocchia del padre e piangendo gli gridò:
“Non dico bugie. Ieri con Jeshua ho davvero giocato e lui mi ha anche regalato questo pallone”,
Strascicando la gamba andò a prendere il pallone e lo mostrò al padre con fierezza. Questi non fece nessun commento. Accarezzò ancora i capelli del figlio, si alzò e, scuotendo la testa, disse tra se: “povero figlio mio”, ed uscì di casa.
Beppe si sentiva in colpa perché, solo ora che anche lui aveva avuto un incidente, capiva il dramma del suo bambino. Lungo la strada si dava dell’egoista perché aveva rimosso stupidamente i problemi del figlio e si ripromise di stare più tempo con il suo Mario.
Intanto a casa il bambino piangeva abbracciando il pallone. Non era stupido e sapeva di non aver sognato, d’altronde il pallone che aveva tra le mani era una realtà. È vero la gamba non la vedeva guarita. Era come sempre la ricordava, ma era certo di avere giocato con Jeshua con le gambe sane. Era avvenuto un qualcosa che non riusciva a spiegare. Lui sapeva che il giorno prima aveva calciato con tutte e due le gambe. Jeshua non faceva parte dei suoi sogni ma era un ragazzo in carne ed ossa come lui. Inoltre il pallone che aveva tra le mani era la dimostrazione più chiara che non aveva sognato. Non vedeva l’ora di tornare alla chiesetta. Si disse che doveva studiare, come faceva ogni mattina, da quando le scuole erano chiuse, poi aspettare il babbo, mangiare con lui, e soltanto il pomeriggio, sarebbe potuto tornare alla chiesetta.
Quando venne la zia Maddalena a riassettare la casa ed a preparare il pranzo, Gambadura aveva una gran voglia di raccontare alla zia ciò che gli era successo. Il timore di non essere creduto anche da lei lo trattenne soltanto per qualche minuto. Tutti dovevano sapere che, almeno per qualche ora, la sua gamba era tornata normale. Così, mentre la zia sbucciava le patate, Gambadura raccontò ciò che era successo il giorno prima. La Zia Maddalena lo lasciò parlare. Non lo interruppe mai. Ascoltava attenta mentre continuava il suo lavoro e quando Gambadura finì il suo racconto la donna si asciugò le mani ed abbracciò il nipote. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Strinse a sé il bambino come se questi avesse raccontato la storia più comune e più semplice del mondo. Si asciugò le lacrime e sorridendo gli disse:
“Quando torni a giocare con quel bambino straniero?”
“Ci siamo dati l’appuntamento per oggi pomeriggio” Rispose il bambino felice che la zia gli avesse creduto. Poi pensieroso aggiunse:
“Allora tu credi che non dico bugie?”
“Certo che ci credo. So che sei un bambino bravo e giudizioso e non penso affatto che tu dica una cosa per un’altra. Credo che a tutti, in forme diverse, accadono fatti straordinari che è difficile raccontare. Viviamo chiusi in noi stessi e non ci accorgiamo che lo straordinario non è così inconsueto come si pensa. Tutta la vita, piccolo mio, è un dono straordinario. È sufficiente avere gli occhi innocenti per riuscire a vederlo.”
La storia di Gambadura finisce qui. Non è una storia strana e miracolosa, è la storia di coloro che sono o si fanno bambini e vedono con occhi semplici che il Signore non abbandona nessuno e, come ha promesso, egli è con noi fino alla fine dei tempi.
Un Ordine a 360°
C’è un passo del Dialogo della Divina Provvidenza in cui Caterina da Siena, laica domenicana, patrona d’Italia e d’Europa, Dottore della Chiesa, presenta, attraverso il Dialogo con Dio Padre, l’Ordine dei Predicatori, fondato da san Domenico, come una navicella dove “perfetti e non perfetti, tutti stanno bene. Egli (Domenico) si accostò alla mia Verità, mostrando di non volere la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Essa è tutta larga, tutta gioconda, tutta odorosa: è un giardino dilettosissimo in sé”. (Dialogo cap. 158)
All’immagine della navicella, si aggiunge, in questa ripresa delle attività delle fraternite, quella dell’albero, che affonda le proprie radici nel terreno del Vangelo, che innesta i suoi rami sul tronco di Domenico: un’immagine suggestiva, dinamica, che dice della continua crescita e trasformazione di un organismo vivente e vitale.
È così che fra David Michael Kammler, promotore generale del laicato domenicano, in visita alle fraternite della Provincia San Domenico in Italia, ci ha presentato l’Ordine, un organismo vivo, vitale, in continua trasformazione, dove anche i rami e le foglie secche contribuiscono a creare humus necessario alla crescita dell’albero.
Organizzare la sua visita ed i suoi spostamenti non è stato facile, vista la vastità del territorio della Provincia. Delle 41 fraternite presenti in Provincia, ne ha incontrate 25, con un generoso impegno di itineranza e di lavoro, promettendo di tornare per incontrare le altre. Realtà a volte piccole, che mostrano tutta la fragilità umana, ma che assicurano la presenza domenicana in luoghi in cui un tempo erano numerosi i conventi ed i frati.
Fra David ci ha informati sulla presenza e le attività dei laici domenicani in tutto il mondo, invitandoci a mantenere aperti il cuore e la fraternita all’accoglienza di tutti. Domenico ha fondato una comunità apostolica, comprensiva di tante realtà, per predicare il Vangelo. E noi siamo gli apostoli e le apostole dei nostri giorni, predicatori e predicatrici che hanno non un pulpito nelle celebrazioni liturgiche, ma migliaia di pulpiti secolari, la famiglia, il lavoro, le relazioni con il mondo, da cui annunciare la Buona Novella, sia con la parola sia, soprattutto, con la vita.
Attraverso le immagini proiettate ci ha presentato un ventaglio di esperienze di predicazione che testimoniano come è possibile per i laici vivere i pilastri della vita domenicana: la preghiera, lo studio, la vita comune, la predicazione. Gruppi dove la preghiera scandisce i tempi della giornata, dove lo studio e la formazione diventano strumento indispensabile per rispondere alle tante sfide delle realtà sempre più lontane dalla fede, dove la predicazione della Verità che è Gesù Cristo può essere fatta attraverso i media moderni e come progetto comune di frati, monache, suore e laici.
Di tutte le foto che illustrano la vita delle fraternite nel mondo, quella che colpisce maggiormente è scattata in un penitenziario degli Stati Uniti, dove dopo la conversione un gruppo di ergastolani ha dato vita ad una fraternita predicando che “Tutti i santi hanno un passato, tutti i peccatori hanno un futuro”. A nessuno di noi è preclusa la misericordia di Dio, che ha una solida base sulla consapevolezza del nostro peccato. E questa verità essi predicano dal pulpito specialissimo del carcere!
Fra David, nei suoi incontri, ha affermato che il promotore non è un direttore, né un ispettore, e tanto meno un inquisitore. È l’animatore della vita delle fraternite, e quindi dell’Ordine.
Ed io lo ringrazio per questo suo impegno: la sua visita lascia una visione dell’Ordine a 360° e il desiderio di essere testimoni del Vangelo in tanti modi nuovi e creativi!
Il rigore dei sogni
I nostri sogni sono capaci di attraversare la storia? Quella personale, comunitaria, della società in cui viviamo?
Come sempre mi capita, quando le domande rimurginano a lungo nella mente, vanno poi ad incastrarsi con qualche episodio biblico che, mi pare, dica esattamente quello che è il contenuto delle mie riflessioni, indicando il percorso dell’uomo di ogni tempo.
Questa è stata la volta della vicenda di Giacobbe.
Giacobbe parte da Bersabea e si dirige verso Carrai, nel suo cammino, al tramonto del sole, si corica con una pietra come guanciale e sogna: una scala poggia sulla terra e la sua cima raggiunge il cielo; gli angeli di Dio salgono e scendono per quella scala. Il Signore gli parla e gli promette la terra sulla quale è coricato, gli assicura la sua presenza e la sua protezione, gli promette la benedizione per sé e per la discendenza e per loro a tutte le nazioni della terra.
E’ preso da timore, riconosce che quello è un luogo terribile, che è la casa di Dio, la porta del cielo. Pianta la pietra che aveva come guanciale, e diventa una stele, versa olio sulla sua cima e promette che se tornerà dal viaggio sano e salvo il Signore sarà il suo Dio. (cfr. Gen. 28,10-22)
Il suo sogno ha bisogno ancora di rendersi storia e lo farà con tutta l’astuzia di cui può essere capace un uomo, per molti aspetti anche discutibile, ma siamo agli inizi della storia sacra e qualche imperfezione si può anche perdonare…
Compra la primogenitura per un piatto di lenticchie, strappa la benedizione a suo padre, si arricchisce e giunge lì, a quella porta del cielo promessa ma mai attraversata.
E’ al fiume Iabbok, manda avanti tutti i suoi e tutti i suoi averi e lui rimane al di qua del guado, gli resta ancora una benedizione da strappare, la più importante. Resta solo e qualcuno lotta con lui: un angelo? un uomo? Dio stesso?
Qui gli viene cambiato il nome, non sarà più Giacobbe ma Israele e qui sarà benedetto (cfr. Gen 32,23-33).
E torno ai miei sogni, sono capace di attraversare la storia fino ad arrivare alla lotta con Dio e con gli uomini? Piego la mia mente, il mio cuore, il mio agire affinché quello che ho intravisto in un sogno trovi all’aurora la benedizione promessa?
Sono i sogni che fanno la differenza, ci sono sogni che costruiscono la storia e la fanno essere storia di salvezza e sogni che allontanano dalla realtà noi stessi e anche gli altri, “non date retta ai sogni che essi sognano” ammonisce, per questi, il profeta Geremia! (cfr Ger 29,8).
Tutti noi siamo a conoscenza di sogni singoli o collettivi che hanno portato distruzione; quanti cannoni benedetti e non solo! Quante azioni riprovevoli coperte da manti caritatevoli che hanno incancrenito la società. Quanti sogni di benessere e di esercizio di potere mascherati da spirito di servizio!
E la porta del cielo rimane inaccessibile, la nostra lotta non ottiene nessuna benedizione.
Allora rimettiamoci in cammino, qualunque sia la nostra età e la nostra condizione, laceriamo il nostro cuore, facciamoci mendicanti, poggiamo la nostra testa sulla nuda pietra, riscopriamo la stanchezza della strada percorsa, lottiamo con gli uomini e con Dio, pieghiamo la nostra realtà ai piedi del sogno e ci trovi l’aurora in questa lotta in cui anche se ci rimettiamo, come Giacobbe, un nervo sciatico e ci ritroviamo claudicanti, quello che ci è stato promesso sarà anche realizzato.
Perché nella fede il cammino è possibile in base alla promessa, non in base a quanto ci è dato di riscontrare nell’evidenza. Se aspettiamo di vedere realizzati i sogni per poter camminare, di strada ne faremo ben poca, ma se, intravisto il sogno, ci incammineremo verso di esso i nostri passi si faranno celeri e il loro ritmo sarà quello del mondo nuovo (cfr. Gen. 28,10-21).
Oggi avere una famiglia è più una scelta che una necessità.
Eppure, molti giovani scelgono di formare una famiglia e molte di queste famiglie non arrivano al 5° anno di convivenza.
Questo ci fa riflettere: vivere insieme è difficile.
Molte volte non si è preparati alle esigenze che vivere insieme presenta e ci si divide alle prime difficoltà che non si riescono a superare.
Posso dirvi solo, da persona che è nata senza una famiglia, ma che se ne è costruita una da più di 30 anni, cosa penso che una famiglia non debba essere e che cosa dovrebbe essere:
- Non deve essere l’unione di due solitudini
- Non deve essere un bel guscio vuoto
- Non deve essere una rapporto dove si vuole cambiare l’altro
- Non deve essere un’idea che i figli sono tuoi perché li hai fatti tu
- Non deve essere un posto dove ci si può chiudere e lasciar fuori i
problemi della società e degli altri.
- Non deve essere un luogo dove dobbiamo fare tutto insieme e non
lasciare spazio alla personalità dell’altro.
Penso, invece, debba essere:
- Un motore che ci spinge ad affrontare i problemi con l’altro
- Essere più forti con il sostegno dell’altro
- Accettare l’altro con i suoi difetti
- E’ pensare di fare una strada insieme con più stimoli
- E’ spalleggiarsi quando si è in difficoltà
- Accettare l’altro com’è, senza pensare che vogliamo sia come noi,
perché siamo meglio di lui
E soprattutto, penso che formarsi una famiglia sia una grossa fatica, perché è faticoso capirsi, rispettarsi, ascoltare, educare i figli ai valori veri. Faticoso è accettare i figli con la loro diversità. Faticoso non chiudersi nel guscio, dove ci si sente protetti, per non affrontare i problemi di tutto quanto sta fuori.
Ma se avete forza e voglia di affrontare questa fatica, fatelo, ne vale la pena.
In un paesino di poche case vivevano due fratelli gemelli così diversi tra loro che era difficile credere fossero figli della stessa madre e dello stesso padre. Uno era così chiaro di pelle da sembrare uno scandinavo e l’altro tanto scuro che spesso lo scambiavano per un africano. Il chiaro di pelle aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi, mentre l’altro i capelli crespi e gli occhi neri. Questa diversità non era soltanto nel fisico, ma Ivan e Bruno questo era il loro nome, erano diversi nel carattere. Tanto Bruno era generoso quanto Ivan avaro e taccagno. Facevano ambedue i contadini, ma mentre Bruno sapeva appena leggere e scrivere, Ivan si vantava di aver letto L’Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia e di sapere a memoria alcuni canti della Gerusalemme liberata.
L’unica cosa che accomunava i due fratelli era la Povertà. Una povertà dignitosa, sosteneva sovente Bruno, una povertà che sarebbe meglio chiamare miseria, rispondeva Ivan.
In effetti, nel paese dove vivevano, i poveri erano in molti, ma quei due fratelli erano i più poveri di tutti e ambedue avevano una barca di figlioli da sfamare. La terra, sassosa e avara, bastava sì e no a non fare morire di fame quelle famiglie. Come tutti sanno, anche tra i poveri vi sono delle distinzioni e certamente si è più poveri se si odia la propria condizione di vita e s’invidia la ricchezza altrui. Bruno e la sua famiglia appartenevano a quei poveri che lodavano Dio e lo ringraziavano per quel poco che avevano; per la salute, per le belle giornate di sole, per la neve, per la loro minuscola casa, ma soprattutto per il dono grande della fede che li faceva sentire figli di Dio. Al contrario Ivan e la sua famiglia, pur avendo le stesse cose di Bruno, si lamentavano sempre di tutto. Niente per loro andava bene. Se c’era il sole si lamentavano che bruciava troppo, se veniva la neve, non andava bene perché mancavano gli scarponi come i ricchi, se mangiavano il pane non erano contenti perché volevano anche la marmellata. Così, mentre Bruno con la sua famiglia cantava le lodi di Dio, Ivan enumerava le sue disgrazie. Malgrado fossero fratelli ed ambedue poveri, Bruno era più ricco di Ivan perché non desiderava di più di quanto aveva.
La storia racconta che un Natale di tanti anni fa, la festività della nascita di Gesù giunse in quel paese con la neve così alta che a stento si riusciva ad aprire l’uscio di casa.
Le due famiglie, che abitavano vicine, avevano finito di consumare il “cenone” natalizio (polenta fumante e poco più) e si preparavano a recarsi nella chiesa, per la messa di mezzanotte. Ivan aveva quasi convinto la sua famiglia a non andare alla Messa, sostenendo che in tanti secoli di cristianesimo non si era per nulla avverato quello che Gesù aveva detto. Lui non si sentiva beato ad essere povero, tuttavia i figli e la moglie lo avevano convinto ad andare perché altrimenti in paese tutti avrebbero sparlato di loro. Si stavano infagottando nei loro stracci per uscire, quando udirono bussare alla porta. Chi bussava non doveva avere molta forza perché si aiutò con la voce:
“Apritemi, per l’amor di Dio!”
Uno dei ragazzi di Ivan sentì quella voce e si precipitò ad aprire. Semi assiderata videro una donna ancora giovane e con i segni palesi di un’immensa stanchezza. Con un filo di voce, chiese ospitalità.
“Fatemi entrare per amore di Dio, mi sono perduta nella notte. Ho tanto freddo e se rimango ancora per la strada morirò assiderata”. Il ragazzo impaurito fece entrare la donna che si precipitò al focolare e letteralmente si raggomitolò vicino al fuoco continuando a gemere.
Ivan quel giorno lo aveva vissuto ancora più male del solito e non aveva fatto altro che brontolare e lamentarsi di tutto. Vedendo la donna entrare esplose in un urlo ed indicando la porta disse:
“Fuori dai piedi qui siamo anche in troppi e non abbiamo nulla per i mendicanti!”
Non ci fu niente da fare. Il suo orgoglio gl’impediva di capire che ci potevano essere altri più poveri di lui.
“Fuori di qui — urlò con forza —. Non è il giorno né l’ora di buttare su altri i vostri guai. Alla vostra età una persona non va in giro la notte di Natale e poi noi stiamo uscendo per andare a Messa”.
Accompagnò le parole col gesto, spingendo fuori quell’importuna. Fece uscire anche moglie e figli e si sbatté la porta dietro le spalle, sperando di smaltire in chiesa il suo umore nero.
La misera donna si avvolse stretta nello scialle e guardò il cielo stellato e piangendo mormorò:
“Vergine santa, aiutami. Anche tu non hai trovato accoglienza quando sei giunta a Betlemme..”
Invocata la madre di Gesù la donna si accorse che la casa di Bruno era illuminata. Si trascinò da quella parte.
“Vi sentite male, buona donna?”
Chiese Bruno quando vide quel fagotto vivente davanti alla porta di casa sua. Anche lui stava uscendo per seguire i figlioli, che già si erano incamminati verso la chiesa. Non udendo risposta, si fece aiutare dalla moglie e condusse in casa quella poveretta, così intirizzita da sembrare un blocco di marmo. La fece accomodare vicino al focolare e ordinò alla moglie di darle una scodella di latte caldo che la poveretta scolò in un attimo. Rinfrancata disse con un filo di voce:
“Dio ve ne renda merito. So di essere inopportuna e vedo che siete così poveri che mi vergogno doppiamente a chiedere a voi la carità”.
“ Che volete? - rispose Bruno - sono povero, è vero; ma noi possediamo una casa, un focolare acceso e qualcosa da mettere sotto i denti, mentre voi, se non vi sì da una mano, certamente morirete di freddo. Non preoccupatevi per noi, soggiunse l’uomo, non si è mai così poveri da non aver qualcosa da dare agli altri e nessuno non è mai così ricco da non aver bisogno di ricevere anche lui qualcosa dai suoi fratelli”.
“Che facciamo? - chiese la moglie di Bruno - la messa ormai sta iniziando”.
Imperturbabile Bruno le disse sorridendo:
“Rimaniamo qui, mia cara. Il Signore sa bene perché ci siamo fermati in casa. Questa nostra sorella ha bisogno di noi. Non possiamo lasciarla sola.”
Così, mentre la moglie copriva con una coperta di lana la donna, Bruno tirò fuori dalle sue tasche la corona del Rosario ed iniziò a pregare. Ad un tratto gli parve di vedere una luce sempre più splendente invadere la stanza. La mendicante si trasformò in una giovane bellissima con in braccio un bambino che sorrideva ai due ospiti.
Bruno e sua moglie caddero stupiti in ginocchio, senza riuscire a dire una sola parola. La scena durò alcuni minuti, che riempirono di tenerezza il cuore dei due coniugi: momenti di paradiso che non avrebbero più dimenticato.
Quando le campane della chiesa suonarono per annunciare la nascita di Gesù la visione sparì, si spense la luce misteriosa, e davanti a Bruno e a sua moglie vi era solo il corpo tremante della donna che avevano accolto. Nel guardare quel fagottino, ricoperto di stracci che si scaldava al focolare, sentirono una gran gioia e capirono che in quella donna c’era tutto il senso del Natale.
Per veder Dio non si doveva guardare il cielo, ma, come aveva predicato, quel Bambino diventato maestro, era sufficiente vederlo ed accettarlo nel più piccolo dei fratelli.
“Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere. Ero nudo e mi avete vestito…”
In un paesino di poche case vivevano due fratelli gemelli così diversi tra loro che era difficile credere fossero figli della stessa madre e dello stesso padre. Uno era così chiaro di pelle da sembrare uno scandinavo e l’altro tanto scuro che spesso lo scambiavano per un africano. Il chiaro di pelle aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi, mentre l’altro i capelli crespi e gli occhi neri. Questa diversità non era soltanto nel fisico, ma Ivan e Bruno questo era il loro nome, erano diversi nel carattere. Tanto Bruno era generoso quanto Ivan avaro e taccagno. Facevano ambedue i contadini, ma mentre Bruno sapeva appena leggere e scrivere, Ivan si vantava di aver letto L’Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia e di sapere a memoria alcuni canti della Gerusalemme liberata.
L’unica cosa che accomunava i due fratelli era la Povertà. Una povertà dignitosa, sosteneva sovente Bruno, una povertà che sarebbe meglio chiamare miseria, rispondeva Ivan.
In effetti, nel paese dove vivevano, i poveri erano in molti, ma quei due fratelli erano i più poveri di tutti e ambedue avevano una barca di figlioli da sfamare. La terra, sassosa e avara, bastava sì e no a non fare morire di fame quelle famiglie. Come tutti sanno, anche tra i poveri vi sono delle distinzioni e certamente si è più poveri se si odia la propria condizione di vita e s’invidia la ricchezza altrui. Bruno e la sua famiglia appartenevano a quei poveri che lodavano Dio e lo ringraziavano per quel poco che avevano; per la salute, per le belle giornate di sole, per la neve, per la loro minuscola casa, ma soprattutto per il dono grande della fede che li faceva sentire figli di Dio. Al contrario Ivan e la sua famiglia, pur avendo le stesse cose di Bruno, si lamentavano sempre di tutto. Niente per loro andava bene. Se c’era il sole si lamentavano che bruciava troppo, se veniva la neve, non andava bene perché mancavano gli scarponi come i ricchi, se mangiavano il pane non erano contenti perché volevano anche la marmellata. Così, mentre Bruno con la sua famiglia cantava le lodi di Dio, Ivan enumerava le sue disgrazie. Malgrado fossero fratelli ed ambedue poveri, Bruno era più ricco di Ivan perché non desiderava di più di quanto aveva.
La storia racconta che un Natale di tanti anni fa, la festività della nascita di Gesù giunse in quel paese con la neve così alta che a stento si riusciva ad aprire l’uscio di casa.
Le due famiglie, che abitavano vicine, avevano finito di consumare il “cenone” natalizio (polenta fumante e poco più) e si preparavano a recarsi nella chiesa, per la messa di mezzanotte. Ivan aveva quasi convinto la sua famiglia a non andare alla Messa, sostenendo che in tanti secoli di cristianesimo non si era per nulla avverato quello che Gesù aveva detto. Lui non si sentiva beato ad essere povero, tuttavia i figli e la moglie lo avevano convinto ad andare perché altrimenti in paese tutti avrebbero sparlato di loro. Si stavano infagottando nei loro stracci per uscire, quando udirono bussare alla porta. Chi bussava non doveva avere molta forza perché si aiutò con la voce:
“Apritemi, per l’amor di Dio!”
Uno dei ragazzi di Ivan sentì quella voce e si precipitò ad aprire. Semi assiderata videro una donna ancora giovane e con i segni palesi di un’immensa stanchezza. Con un filo di voce, chiese ospitalità.
“Fatemi entrare per amore di Dio, mi sono perduta nella notte. Ho tanto freddo e se rimango ancora per la strada morirò assiderata”. Il ragazzo impaurito fece entrare la donna che si precipitò al focolare e letteralmente si raggomitolò vicino al fuoco continuando a gemere.
Ivan quel giorno lo aveva vissuto ancora più male del solito e non aveva fatto altro che brontolare e lamentarsi di tutto. Vedendo la donna entrare esplose in un urlo ed indicando la porta disse:
“Fuori dai piedi qui siamo anche in troppi e non abbiamo nulla per i mendicanti!”
Non ci fu niente da fare. Il suo orgoglio gl’impediva di capire che ci potevano essere altri più poveri di lui.
“Fuori di qui — urlò con forza —. Non è il giorno né l’ora di buttare su altri i vostri guai. Alla vostra età una persona non va in giro la notte di Natale e poi noi stiamo uscendo per andare a Messa”.
Accompagnò le parole col gesto, spingendo fuori quell’importuna. Fece uscire anche moglie e figli e si sbatté la porta dietro le spalle, sperando di smaltire in chiesa il suo umore nero.
La misera donna si avvolse stretta nello scialle e guardò il cielo stellato e piangendo mormorò:
“Vergine santa, aiutami. Anche tu non hai trovato accoglienza quando sei giunta a Betlemme..”
Invocata la madre di Gesù la donna si accorse che la casa di Bruno era illuminata. Si trascinò da quella parte.
“Vi sentite male, buona donna?”
Chiese Bruno quando vide quel fagotto vivente davanti alla porta di casa sua. Anche lui stava uscendo per seguire i figlioli, che già si erano incamminati verso la chiesa. Non udendo risposta, si fece aiutare dalla moglie e condusse in casa quella poveretta, così intirizzita da sembrare un blocco di marmo. La fece accomodare vicino al focolare e ordinò alla moglie di darle una scodella di latte caldo che la poveretta scolò in un attimo. Rinfrancata disse con un filo di voce:
“Dio ve ne renda merito. So di essere inopportuna e vedo che siete così poveri che mi vergogno doppiamente a chiedere a voi la carità”.
“ Che volete? - rispose Bruno - sono povero, è vero; ma noi possediamo una casa, un focolare acceso e qualcosa da mettere sotto i denti, mentre voi, se non vi sì da una mano, certamente morirete di freddo. Non preoccupatevi per noi, soggiunse l’uomo, non si è mai così poveri da non aver qualcosa da dare agli altri e nessuno non è mai così ricco da non aver bisogno di ricevere anche lui qualcosa dai suoi fratelli”.
“Che facciamo? - chiese la moglie di Bruno - la messa ormai sta iniziando”.
Imperturbabile Bruno le disse sorridendo:
“Rimaniamo qui, mia cara. Il Signore sa bene perché ci siamo fermati in casa. Questa nostra sorella ha bisogno di noi. Non possiamo lasciarla sola.”
Così, mentre la moglie copriva con una coperta di lana la donna, Bruno tirò fuori dalle sue tasche la corona del Rosario ed iniziò a pregare. Ad un tratto gli parve di vedere una luce sempre più splendente invadere la stanza. La mendicante si trasformò in una giovane bellissima con in braccio un bambino che sorrideva ai due ospiti.
Bruno e sua moglie caddero stupiti in ginocchio, senza riuscire a dire una sola parola. La scena durò alcuni minuti, che riempirono di tenerezza il cuore dei due coniugi: momenti di paradiso che non avrebbero più dimenticato.
Quando le campane della chiesa suonarono per annunciare la nascita di Gesù la visione sparì, si spense la luce misteriosa, e davanti a Bruno e a sua moglie vi era solo il corpo tremante della donna che avevano accolto. Nel guardare quel fagottino, ricoperto di stracci che si scaldava al focolare, sentirono una gran gioia e capirono che in quella donna c’era tutto il senso del Natale.
Per veder Dio non si doveva guardare il cielo, ma, come aveva predicato, quel Bambino diventato maestro, era sufficiente vederlo ed accettarlo nel più piccolo dei fratelli.
“Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere. Ero nudo e mi avete vestito…”
Novara si conferma città del riciclaggio
Capisco che detta così, questa affermazione potrebbe dare adito a perniciosi equivoci e magari anch’io correrò il rischio di incendiare qualche coda di paglia lassù, tra le verdi praterie, dove sapete. Ovviamente qui si parla solo di scelte ecologiche: la notizia è questa, domenica 7 novembre c.a. il nuovo Consiglio della Fraternita di Agognate ha riconfermato la Presidente uscente Gabriella Avezzano. Infatti i saggi Confratelli prima e i prudenti Consiglieri dopo, si son detti: ma perché rottamare il Presidente vecchio per eleggerne uno nuovo nuovo, con tutti i rischi connessi? Meglio andare sul sicuro, eventualmente per le correzioni di rotta si può sempre provvedere in seguito... Come dice l’adagio? “Chi lascia la presidente vecchia per la nuova (o il nuovo) sa quello che lascia ma non sa quello che si ritrova” (sempre che lo trovi).
So che ora la nostra serafica Irene mi vorrà bruciare a fuoco lento sulla pubblica piazza con una patata ben calcata in bocca (in modo da evitare altri sproloqui) e magari un rametto di rosmarino ...altrove, ma personalmente come “Bastian contrari” io preferivo continuare a parlare di Priore o di Priora, ma evidentemente (così penso io che son malizioso per natura) lassù ai soliti frati occhiuti e sospettosi questa storia che anche noi laici avessimo dei Priori (da altrettanti secoli quanto loro, si badi bene) proprio non gli andava giù e tanto han detto e tanto han fatto che adesso si chiamano Presidenti, speriamo che sull’onda di questi “prioriti” a nessuna venga poi in mente di trasformare i Consigli di Fraternita in Consigli d’Amministrazione e le Fraternite in S.r.l. Comunque noi nel caso saremmo al solito già avantissimo, perché come Tesoriere (sempre in virtù del nostro alto senso dell’ecologia) abbiamo rieletto un bancario coi fiocchi: Luca Dentis, sempre che non se ne fugga col malloppo in qualche purgatorio fiscale (sì, perché per i paradisi fiscali ci vogliono ben altri capitali!).
Insomma la Fraternita di Agognate ha compiuto la sua svolta ecologista, che a ben guardare sta già scritta tutta quanta nel nostro DNA di penitenti figli di San Domenico, tutti cavati “ex ore leonis” direbbe abuna Ennio e quindi tutti riciclati!
In compenso invece abbiamo una Maestra dei novizi (in questo caso ahinoi, dovremmo ribattezzarla “della novizia”) nuova di conio, ancora scintillante di zecca... e di paillettes: l’affascinante signora Rizzi, al secolo Angela Vaccanio. Ancora più baluginante di zecca è il novello VicePresidente: Angelo Serina, anche lui in una eventuale trasformazione della fraternita in S. r. l. è in Pole position essendo già Direttore di Ispettorato del Lavoro.
Insomma Signori, se non l’avevate capito, questa è una Fraternita d’élite e se non avete qualche quarto di nobiltà (in mancanza si accettano anche i quarti di bue) non potete sognarvi di far parte della nostra lustrissima congrega di naufraghi di prima classe.
Unica defaillance in tanto fulgore l’elezione del Segretario nella persona del sottoscritto: ma dico, serbare le scartoffie passi che già tra le scartoffie ci lavoro, ma vi sembro uno in grado di custodire qualsivoglia segreto? In realtà al proposito ho i miei sospetti sulla priora, ops, volevo dire Presidenta, infatti l’ho beccata in ferramenta che confabulava in maniera sospetta col negoziante: appena mi ha visto, tutta paonazza per la “sgamata” imprevista mi ha detto che è venuta per lo sciaquone del cesso che le si è rotto proprio nel momento del bisogno, anzi del bisognino, prolungandosi poi al solito in lunghe descrizioni che vi risparmio. Come mai però pochi secondi prima era lì con uno strano sorrisino sulle labbra, che ravanava col garzone di bottega tra strani serramenti scintillanti d’acciaio inox che mi ricordavano molto quelle indossate suo malgrado dall’orrifico Dr Lecter, per gli amici: “Hannibal the cannibal”? Excusatio non petita est accusatio manifesta! Altro che sciaquone d’Egitto, non c’è dubbio, qui qualcuno ora pensa di correre ai ripari della “mala parata” con qualche supplizioso marchingegno! Ma io mi ribellerò, statene certi!
Il vostro affezionatissimo e novissimo Segretario
Paolo Crivellaro
S.A.E. Novara
Quest’anno, come S.A.E. (Segretariato Attività Ecumeniche), Gruppo di Novara, abbiamo deciso di riflettere sugli Atti degli Apostoli.
Rileggere questi “fatti”, come li chiama il nostro fratello Valdese, Paolo Bensi, per rivedere il nostro essere cristiani riuniti in comunità.
Nel primo incontro il Pastore David Markay ci ha tracciato le linee principali di questo libro. Quello che è emerso subito è che ogni “fatto” è preceduto dalla “potenza” e dalla “forza” dello Spirito. Lo Spirito non è qualcosa di vago, di etereo, di inconsistente, negli Atti degli Apostoli si impone come protagonista: “Lo Spirito Santo e noi” (cfr. Atti 15,28) è l’espressione degli Apostoli.
La chiesa che nasce ha già presente in sé complessità e conflittualità, ma con la presenza dello Spirito si fa luogo, comunione, sacramento, annuncio, diaconia, comunità dei discepoli.
Lo spirito è per tutti, diverso sarà poi il carisma che lo stesso spirito darà a ciascuno.
All’inizio la struttura è minima, ci si ritrova nelle case, si parla di chiese domestiche.
Gli elementi costitutivi essenziali sono pochi: ascolto, comunione, frazione del pane, preghiera.
A chi crede nel nome di Gesù è richiesto il pentimento e farsi battezzare. Ci si riunisce per discernere la volontà di Dio. Il risultato è sempre accolto con umiltà, senza trionfalismo.
Nel secondo incontro anche Francesca Barbano ci ha illustrato di come lo Spirito sia l’elemento unificatore e il protagonista degli Atti.
Data l’importanza dello Spirito, si pone il problema di sapere dove effettivamente parla, dove lo si può sperimentare. Abbiamo il caso di falsi profeti, la necessità di trovare delle certezze diventa forte.
Dal secondo secolo si individua questa certezza nella continuità nella catena dell’episcopato; sarà poi il Concilio di Trento a stabilire, per i cattolici, che attraverso l’Ordinazione è conferita la Grazia.
Per la Riforma, lo Spirito si ritrova solo nei Libri.
Certo rimane un aspetto mai risolto completamente, sempre da riaffrontare, il discernimento fra la potenza divina e il desiderio umano è un lavoro continuo per ciascuno.
Luca richiama già nel suo Vangelo la potenza originaria di Dio, quella creatrice, e, anche negli Atti, dopo l’ascensione di Gesù ci dice che i discepoli restano a guardare il cielo, si radunano in preghiera e aspettano, non sanno bene come proseguirà la loro storia.
E’ la Pentecoste che fa proseguire la storia; ancora una volta e sempre, nei momenti forti c’è l’irruzione dello Spirito che dà una partenza nuova, un rinnovamento all’interno delle strutture stesse. L’avanzamento è reso possibile solo dalla presenza dello Spirito.
Riporto alcune frasi che Lutero scrive nella sua Introduzione al Commento al Magnificat, che dicono bene di questa presenza:“Non c’è però nulla che lo possa manifestare meglio delle sue opere che in noi si manifestano, e vengono sentite e sperimentate da noi; quando poi si fa l’esperienza come egli sia un Dio siffatto che guarda in basso e soccorre i poveri, i disprezzati, i miserabili, gli abbandonati, e tutti coloro che non sono nulla; allora ci diventa teneramente caro, il cuore trabocca di gioia, balza ed esulta dal grande piacere che ha trovato in Dio.
E allora è presente lo Spirito santo, poiché è lui che ha insegnato tale esuberante conoscenza e piacere in un momento di esperienza.”
Proseguiremo i nostri incontri, dopo Settimana di Preghiera dell’Unità dei Cristiani, che quest’anno avrà un tema scelto fra gli Atti.
L'inatteso
Avvenne, in una casa di Nazareth, a una fanciulla di nome Maria, promessa sposa di un uomo, chiamato Giuseppe.
Questi i “dati” del nostro Natale, un angelo, il sì di una donna e il corso della storia che cambia. Abbiamo accettato, mentalmente, che in questo avvenimento ci sia la parte più importante della nostra fede di cristiani: un Dio che si fa uomo. L’Eterno che prende carne e sangue nel grembo di una vergine, in un terreno non ancora fecondato.
Se è nelle nostre intenzioni, fondare la nostra vita su questo, risulta scontato che non possiamo prendere la prima pietra della costruzione e metterla da parte, questo, è facile da capire, darebbe tutt’altra costruzione (possiamo pensare ai “cieli di cartone” di cui ci ammoniva Nietzesche: se attacchiamo lì la nostra vita, al momento della difficoltà, crolleremo noi assieme al nostro cielo).
Occore, allora, uno sforzo su quale sia il nostro fondamento e lì investire, quel luogo dove “anche i capelli del nostro capo sono contati” (cfr. Lc 21,18); lì dove anche se perdiamo la vita la sappiamo ritrovata. Confidando che: “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (cfr. Lc 21,33).
Dunque, “avvenne” o “avviene” che c’è un Dio che guida la storia?
Quello che è accaduto a Maria è stato un episodio circoscritto a duemila anni fa o continuamente l’inatteso fa irruzione nella storia e ne cambia il suo corso?
Cosa, ancora, consideriamo “storia”? Gli avvenimenti messi in atto dalle nostre spinte umane, di sopravvivenza, di potere, di visibilità. Mettiamo nella “storia” solo l’insieme delle nostre miserie, oppure, almeno noi che vogliamo annoverarci fra i seguaci di quel Gesù, dobbiamo, necessariamente, inserire quel canto che è stato di Maria?
Vediamo i potenti rovesciati dai troni, gli umili innalzati? Vediamo almeno nella nostra storia personale l’orizzonte squarciato da una Parola? E vediamo almeno che i nostri criteri di valutazione si modificano, esultiamo e ci rallegriamo per le grandi opere che compie il Signore?
Di cosa gioisce il nostro cuore? Di motivi per rattristarci ne troviamo tanti, alla televisione, sui giornali, nei racconti più o meno dettagliati che ascoltiamo, in tutte le nostre situazioni di fatica.
Se il nostro Natale tiene conto della miseria e, su questa, riconosciamo una misericordia, allora il nostro cuore cambia, allora la nostra testimonianza sarà strada percorribile per chi ci incontra.
“Avvenga di me secondo la tua Parola” e la storia cambia.
In questi giorni ho incontrato due persone che mi hanno saputo trasmettere l’infinito della possibilità di Dio.
Una è Maria Vingiani, che è venuta a salutarci a Roma quando ci siamo riuniti per il Consiglio dei Gruppi Locali del SAE. Ci ha parlato, con l’entusiasmo e la passione di sempre, dell’inizio del suo percorso ecumenico. Si stenta a credere che una donna, in periodo di guerra, contro la volontà della famiglia abbia potuto mettere una pietra per l’ecumenismo in una Chiesa dove c’era la scomunica per chi frequentava un luogo di culto dei “fratelli separati”.
“La storia non è ineluttabile” ha ripetuto con forza e convinzione. “Si può cambiare la storia”.
L’altra è Vittoria Scaglioni, anche lei nell’ecumenismo fin dalla prima ora, mi ha ripetuto più volte, scandendo bene le parole: “Ricordati, tutto e sempre dipende dalle persone! Ricordatelo, tutto e sempre dipende dalle persone”.
Si, siamo noi che possiamo credere o non credere; investire da una parte o da un’altra; mettere al centro della nostra esistenza i poveri sfamati o i ricchi rimandati a mani vuote.
Possiamo continuare a guardare a “tutto ciò che poteva essere e non è stato” (1) o magnificare il Signore perché “ha spiegato la potenza del suo braccio” e quello che ha fatto per i nostri padri continua ad operarlo “di generazione in generazione”.
E Natale sarà in questa misura per noi.
E Natale sarà, nel mondo e nella storia, per tutti coloro che hanno inserito la loro vita nell’inatteso di Dio.
Auguri
(1) Guido Gozzano: “Non amo che le rose che non colsi. Non amo che
le cose che potevano essere e non sono state”.
Altro...
Dopo la visita di Auschwitz
Vorrei comunicarvi una riflessione che mi ha suggerito la visita del campo di concentramento di Auschwitz, visita che era parte di un pellegrinaggio in Polonia.
Mi ha colpito – tra le tante cose – una fotografia che non avevo notato la prima volta che avevo visitato il campo. È una delle rare fotografie scattate dai tedeschi per documentare le attività del campo: ovviamente le fotografie fatte all’epoca furono pochissime, per evidenti motivi, ma qualcuna i comandanti tedeschi dettero ordine di eseguirne per rendere conto dell’attività svolta.
La fotografia ritrae una colonna di deportati appena arrivati al campo. Si sa che, appena arrivati, i deportati venivano immediatamente smistati: le persone sane venivano incolonnate in una fila a sinistra, mentre quelle giudicate - ad una occhiata di un milite tedesco - inutili bocche da sfamare (anziani, malandati, handicappati), venivano incolonnate in una fila a destra per essere avviati alle camere a gas e poi ai forni crematori.
Ebbene, la fotografia ritrae questo momento: pur nella non limpidezza, si vede chiaramente una persona, un uomo con i capelli bianchi, appoggiato ad un bastone, che si stacca dalla fila per muoversi verso la colonna di destra. Se si fa attenzione, si nota anche l’indicazione data dal militare con il braccio.
Ecco, qualcuno aveva giudicato che quella persona era indegna di vivere. E chissà se quel militare ha dato quel terribile giudizio per odio o semplicemente come atto di routine, come esecuzione di ordini ricevuti, senza magari neanche dare importanza a quello che faceva, convinto di fare bene il lavoro cui era stato preposto.
Ma oggi non succede così nella nostra società?
Qualcuno ritiene che una vita sia indegna o comunque inutile da vivere e può tranquillamente essere soppressa.
Penso agli aborti. Qualcuno decide che una piccola o grande malformazione rende indegna quella vita di nascere e si convince e convince gli altri che – per il bene del nascituro e di tutti – non c’è spazio per lui nel mondo. Ricordo, non senza brividi, il fatto successo qualche mese fa in Italia (così almeno l’hanno riportato i giornali): dall’ecografia era risultato che il bambino era affetto da “labbro leporino”, una piccola malformazione al labbro che con una operazione chirurgica non eccessivamente impegnativa poteva essere corretta. Ciò è bastato per autorizzare l’aborto, aborto che però non è riuscito e così il bambino è nato ma, siccome si era deciso per l’aborto, è stato lasciato morire per disidratazione.
Penso all’eutanasia ed alla martellante propaganda, che proprio in questi giorni viene fatta con uno spot televisivo. Qualcuno decide che la vita in un determinato stato è solo infelicità e quindi può essere soppressa. E si ammicca compiaciuti, indicando questo come conquista di civiltà. E invece di aiutare la persona in difficoltà, si contribuisce a creare una mentalità che poco a poco, senza accorgersi, porterà a ritenere un dovere “togliersi di mezzo”.
“Dove c’è amore non c’è dolore” ricordo scritto all’ingresso di un ospedale di Mumbai. Ma evidentemente non essendo più capaci di dare amore, vogliamo togliere il dolore in un modo meno impegnativo.
Penso anche alle tante persone che “qualcuno” ha giudicato non più utili per il “ciclo produttivo” e quindi possono essere senza tanti complimenti sbattute sulla strada, senza lavoro e possibilità di reinserimento. E se qualcuno, incapace di reggere questa situazione, si suicida, vuol dire che era fragile; è un suo problema.
Penso alle tante persone che per continuare ad avere il lavoro (e quindi il sostentamento per sé e la famiglia) devono accettare umilianti soprusi, turni defatiganti, che umiliano la dignità della persona, perché “qualcuno” ha deciso che questo è il modo per far funzionare le cose.
Ecco, è cambiato molto da quel periodo di Auschwitz?
Oggi non si distruggono più le persone per odio o perché appartenenti ad una particolare etnia, anzi oggi le si distrugge o per la loro felicità o perché così “vuole il mercato”; senza odio, probabilmente, ma evidentemente con indifferenza; con la coscienza che, piano piano, senza accorgersi, si addormenta e non si rende conto che una semplice indicazione, con la mano, della colonna che si deve prendere (destra o sinistra, la morte o la vita), come faceva il milite tedesco nel campo di concentramento, non è semplice routine.
Giuseppe
Pronto? Ciao Don Mario, sono fra Domenico di Agognate! Devo scrivere l’articolo per il giornalino di Agognate e pensando ai contenuti mi sono reso conto che non ho mai trattato il tema degli F35 e visto che la “battaglia” della Commissione giustizia e pace diocesana è quella di informare il più possibile la gente comune su quanto sta accadendo a Cameri (con i soldi dei contribuenti), ho pensato che è tempo di un articolo anche per il giornalino di Agognate.
Bravo, bella idea, non dobbiamo perdere ogni occasione di informare la gente!
Ho bisogno il testo dell’ultima scheda che abbiamo preparato per la veglia della pace del 31 dicembre; io ho solo il cartaceo e mi serve il testo in word.
Se ti interessa, ho appena finito di scrivere un articolo per il prossimo numero della rivista “Popoli e Missione” dove cerco di riassumere la questione degli F35 pensando anche alla gente che non vive a Novara e che, forse, non ha mai sentito parlare di questo costosissimo progetto che colpir le tasche di tutti gli italiani... Se vuoi, puoi pubblicarlo anche sul vostro giornalino.
Perché no? Così mi risparmi la fatica di scrivere! Mandami l’e-mail con il testo e lo pubblicheremo!
Te lo mando subito!
Grazie don Mario! A presto!
I recenti attacchi ai cristiani in diverse parti del mondo, dall’Iraq alla Nigeria, dal Pakistan all’Egitto, non aiutano certamente ad attivare e ad alimentare tematiche di fratellanza e di pace nelle comunità cristiane. A fronte di questi gesti esecrabili monta in maniera surrettizia anche tra noi un impalpabile ma concreto rifiuto a tutto ciò che è diverso, ritenuto allo stesso tempo anche “nemico”, se nel devozionalismo popolare non fa mai capolino il richiamo a rispondere colpo su colpo, negli interventi che si susseguono su patinate riviste nazionali e in salottiere tavole rotonde televisive, prevale una fede “muscolosa” alimentata da gente che pur dichiarandosi non credente si prosterna fino ai piedi di ecclesiastici perdigiorno dando origine quindi a quel termine di ateo devoto che connota in maniera brillante coloro che vogliono trasformare il messaggio di Gesù di Nazareth in una sorta di religione civile da adattare alla nostra società. Noi siamo convinti che la fede, ed in modo particolare la fede cristiana, è solo ed esclusivamente un percorso di vita in cui il credente accetta di seguire i principi del Vangelo e di testimoniarli nel concreto storico in cui è chiamato a vivere. Benedetto XVI nel suo ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace ricordava a tutti che il mondo ha bisogno di Dio, ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi che solo una prassi religiosa correttamente vissuta può trasformare in esaltanti sentieri di pace.
Ma come si diceva, con i tempi che corrono è molto difficile essere uomini e donne di pace e soprattutto dialogare con chi appartiene al “campo avverso”, eppure i coraggiosi, gli spiriti più nobili dell’umanità sono proprio quelli che sanno dialogare anche con i nemici; chi non ricorda l’esempio di San Francesco che in pieno periodo delle Crociate andò disarmato dal Sultano a parlare di pace. Lo spirito di San Francesco nel ricercare la pace è sempre stato uno dei punti cardini della fede cristiana Venticinque anni fa Giovanni Paolo II diede nuova linfa a questo spirito convocando ad Assisi i responsabili di tutte le religioni del mondo affinché ciascuno con la sua fede, i propri riti e nella cultura a lui più congeniale esprimesse l’anelito di pace dei popoli di tutto il mondo. Il coraggio di stringere la mano a colui che fino a pochi minuti fa era considerato nemico, è un gesto inaudito che solo chi ha una vera nobiltà d’animo sa compiere e non sempre chi fa tali gesti viene capito dai suoi: Ghandi, l’apostolo della nonviolenza del ventesimo secolo, fu ucciso da un fondamentalista indù, Rabin e Sadat, che avevano avviato un nuovo corso di pace tra Israele e Mondo Arabo, vennero uccisi da fanatici della propria gente.
Questa lunga premessa è necessaria per capire come anche nelle realtà periferiche in cui a livello ecclesiale si cerca di impegnarsi per costruire cammini di pace, a volte ci si trova di fronte non solo ad un’opinione pubblica avversa ai termini proposti, ma anche ad una comunità ecclesiale piuttosto tiepida alle sollecitazioni che le vengono rivolte sul tema della pace. Lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle come Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Novara, decisamente schierata contro la costruzione e l’assemblaggio degli aerei da combattimento F35 che tra qualche anno avverrà all’aeroporto militare di Cameri nei pressi di Novara.
L’AEREO JOINT STRIKE FIGHTER, che roba è?
Vale la pena per i lettori di Popoli e Missione presentare una scheda che illustri l’aereo Joint Strike Fighter (F35): esso è un caccia multiruolo di quinta generazione. Il progetto è faraonico, l’F35 è un aereo da combattimento monomotore, monoposto, in grado di operare alla velocità del suono, ma con una velocità di crociera subsonica. E’ ottimizzato per il ruolo aria terra (quindi per l’attacco) ed ha due stive interne per le bombe che possono essere anche di tipo nucleare. Il progetto è realizzato in cooperazione da Stati Uniti ed altre otto nazioni: Regno Unito (primo livello con partecipazione finanziaria pari al 10%); Italia ed Olanda (secondo livello, con partecipazione finanziaria pari al 5%) e Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca (terzo livello con una partecipazione finanziaria pari al 1-2%). Si prevede la costruzione di 3.173 aerei, dei quali 2.433 sono per gli USA. L’Italia ha deciso di acquistarne 131. Da noi si è iniziato a parlare del progetto nel lontano 1996 con il Ministro della Difesa Beniamino Andreatta (primo Governo Prodi), il 23 dicembre del 1998 (Governo D’Alema) è stato firmato il Memorandum of Agreement per la fase concettuale-dimostrativa con un investimento di 10 milioni di dollari, il 24 giugno 2002 (secondo Governo Berlusconi), dopo l’approvazione delle Commissioni Difesa di Camera e Senato è stata confermata la partecipazione alla fase di sviluppo con un impegno di spesa di 1.028 milioni di dollari. Sull’andamento del progetto è stato informato il Parlamento nel luglio del 2004 e nel gennaio del 2007 (secondo Governo Prodi) è stato poi autorizzato uno stanziamento di 904 milioni di dollari. Lo scorso 8 aprile 2009, in concomitanza con i giorni del terremoto in Abruzzo, con una velocità inusuale e sconvolgente, il Senato prima e la Camera dei Deputati poi, hanno dato il via libera al Governo per l’acquisto di 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter al costo di 12,9 miliardi di euro, spalmati fino al 2026, e la realizzazione nell’aeroporto di Cameri (Novara) di un centro europeo di manutenzione. Questi dati evidenziano come i governi di qualsiasi colore hanno sposato in pieno la logica delle lobby delle armi, e mentre si riducono costantemente le spese per la sicurezza dei cittadini, vedi i tagli nelle finanziarie alle forze dell’ordine, questi progetti vengono avallati da tutti.
Fin da quando fu chiaro che il territorio novarese sarebbe stato prescelto per l’assemblaggio finale degli F35, la Commissione diocesana Giustizia e Pace espresse con una nota la propria contrarietà al progetto. E mentre a livello locale, istituzioni politiche, mondo industriale, sindacale ecc., si producevano in entusiastici commenti sull’iniziativa in quanto avrebbe portato posti di lavoro, fatto di Novara un polo tecnologico senza eguali sul territorio nazionale e via dicendo, più sommessamente la Commissione Giustizia e Pace, con la Dottrina Sociale della Chiesa alla mano, ricordava a tutti che la produzione delle armi non è immorale in quanto il prodotto finale è uno strumento di morte, ma è immorale proprio perché investendo risorse e stanziamenti finanziari così cospicui in strumenti bellici, si sottraggono risorse preziose che potrebbero essere utilizzate per lo sviluppo dei popoli e per l’elevazione di intere aree disastrate del nostro paese e depresse in altre parti del mondo. Se qualcuno ha la pazienza di andare a rileggersi tutti i discorsi che i vari Pontefici hanno fatto da quando è stata istituita la Giornata della Pace, scoprirà un Magistero lungimirante e profetico, praticamente inascoltato. Gli stessi difensori della vita ad oltranza che allineano in ogni piega nel variegato mondo cattolico, si squagliano come neve al sole quando devono prendere posizione di fronte alla domanda se sono per la pace o per la fabbrica di strumenti di morte!
Mons. Renato Corti, Vescovo di Novara, ha sempre sostenuto l’attività della Commissione Giustizia e Pace; in un intervento fatto al seminario diocesano lo scorso 29 novembre 2010, riprendendo una presa di posizione del gennaio 2007 di mons. Fernando Charrier allora Presidente della Commissione Regionale Piemontese per la Pastorale Sociale e del Lavoro, e di mons. Tommaso Valentinetti in quel periodo Presidente di Pax Cristi, ha affermato: “La necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione degli strumenti concepiti per la guerra, in particolare alla problematica sorta recentemente sul territorio novarese relativa alla costruzione degli F35”. Ha poi proseguito dicendo che: “Abbiamo la speranza che si arrivi ad un ripensamento, che finora non è avvenuto, che permetta una riflessione più allargata e approfondita capace di incidere nella mentalità delle persone e delle Istituzioni”.
Una speranza, quella di Mons. Corti, che unita all’impegno della Commissione Giustizia e Pace è destinata a rimanere sulla carta, in quanto ancora una volta la scelta di essere dalla parte della nonviolenza e del Vangelo, pone inevitabilmente chi la fa dalla parte dei perdenti.
Don Mario Bandera
Responsabile Commissione Giustizia e Pace
Diocesi di Novara
Non sono un filosofo, né uomo di lettere ma un semplice scrivano che è a servizio di chiunque abbia bisogno di scrivere qualcosa. Non sono né ricco né povero e porto avanti con grande dignità la mia famiglia, pago le decime e sono fedele alla legge del sabato; credo quindi di essere in grado di scrivere onestamente per tutti coloro che si rivolgono a me.
Mi permetto di scrivere di Lazzaro e del ricco epulone perché conosco bene sia questo che quello. Mi chiamo Alef e posso dire, con onestà, di essere un uomo prudente, parsimonioso, educato e servile quanto basta per non dare fastidio a nessuno. Per prudenza, ma soprattutto per amore della famiglia, non vado mai a una manifestazione di piazza e rifuggo da cortei politici. La politica non fa per me. Inoltre ho un terrore sacro di ogni maestro che sfodera idee nuove. Le idee, quando sono troppo ardite, combinano dei pasticci.
Se scrivo questa memoria del ricco epulone, lo faccio perché mi è stato ordinato e perché sono stato pagato. Descrivere la vita di un povero è cosa abbastanza complessa, se si vuole indagare nel profondo del suo essere. E più semplice parlare di un ricco perché costui ha ritmi e pensieri che si susseguono con cadenze regolari. Non ha l’assillo del pane, non si preoccupa dove riposare, se riesce. Ha molti amici che regolarmente si ricordano di lui e lo vezzeggiano con regali di cui non ha assolutamente bisogno (i ricchi, infatti, tra di loro si fanno regali inutili). Non ha problema di sporcizia fisica, né tanto meno si pone problemi morali perché è convinto di essere sempre, o quasi sempre, nel giusto. Non ha bisogno di rubare, o se lo fa, il fatto non gli è attribuito come reato perché un ricco è sempre al di sopra di ogni sospetto. La sua prodigalità lo fa sentire a posto anche quando spende per un vestito, o in una serata passata tra amici, quanto basterebbe ad un povero per vivere molti anni della sua vita. I ricchi si credono non solo baciati dalla fortuna, cosa che non dispiace, ma arrivati a quella ricchezza perché meritevoli di possederla. Inoltre, tengono, in proporzione alle loro fortune, schiere più o meno numerose di cortigiani che hanno il compito di elogiarne le virtù, di esaltarne la capacità amministrativa e di applaudire in continuazione per ogni loro azione.
Altra caratteristica comune dei ricchi è quella di sentirsi generosi con i poveri ai quali donano molto di più di quanto questi meritino. Tutti i ricchi sono convinti che i poveri sono tali perché, in fondo, lo vogliono; cosi come essi vogliono essere ricchi. Il loro rapporto con Dio è di tipo accomodante e spesso si sentono molto amici con Jahvé. Tra ricchi e potenti, pensano, ci si intende bene. Dio non può non stare dalla loro parte, visto che ha benedetto in grande misura le loro ricchezze, tanto da farle aumentare. Perciò giustamente allungano i loro filatteri, passeggiano orgogliosi nel tempio e invitano spesso i sacerdoti alle loro mense.
Per un povero le cose non sono così lineari. I poveri sono cacciatori per costituzione e costringono, se si vuol descriverli, a seguirli in questa caccia per soddisfare i loro bisogni primari: mangiare, bere, riscaldarsi, dormire. Come tutti sanno, quando si va a caccia, il cacciatore è costretto a tirare di arco e ciò significa, anche se in forma lieve, guerreggiare. Credo che la vita di un povero potrebbe riassumersi cosi: una guerra che si protrae per tutta l’esistenza al fine di procurarsi di che mantenersi in vita. Ora, chi è in guerra non va tanto per il sottile e per lui tutto è lecito purché gli procuri ciò di cui ha bisogno. I poveri, non avendo niente da perdere, non tengono in nessun conto il bene grande che è la famiglia; per un po’ di pane, sono capaci di vendere persino i figli. So anzi, con certezza, che insegnano ai piccoli come procurarsi il cibo anche violando la legge che punisce severamente chi si appropria di cose altrui. Non credo, poi, che un povero abbia amici perché l’amicizia ha delle regole precise per essere coltivata. E’ necessario zapparla ogni giorno con la zappa della pazienza e fertilizzarla con il concime della bontà.
L’amico, dice il libro sacro, è un tesoro e loro sono capaci soltanto di dilapidare tesori e non di conservarli. Sono, inoltre, convinto che il loro Dio non è il Dio di Israele che ha fatto un patto con il nostro popolo, ma lo immaginano come un recipiente da cui è possibile ricavare ogni bene senza dare in cambio nulla. Il loro dio è una specie di macchina che deve stare a loro servizio e spesso lo ingiuriano quando non ottengono ciò che chiedono. Avviene così che spesso si vedono nella sinagoga assorti nella preghiera mentre altre volte si comportano come atei disposti a darsi a dei stranieri pur di aver lo stomaco pieno. Delle feste liturgiche amano soltanto quelle in cui è possibile banchettare e ballare, mescolando, incautamente, il sacro e il profano. Sono comunque convinto che preferiscono le religioni pagane perché hanno molti dei. La nostra ha un solo Dio ed è difficile imbrogliarlo, mentre per le altre avendo una miriade di dei è più facile ottenere da un dio quello che un altro ha negato. Non vogliono un solo Dio come non vorrebbero un solo lavoro, anzi non vogliono nessun lavoro che sia metodico. Sia l’unità di Dio che l’unicità del lavoro sono troppo monotone. L’unica cosa che non sono riuscito a comprendere dei poveri è il loro grande desiderio di vedere sempre più bello e più ricco il tempio di Gerusalemme.
Ho visto, spesso, con i miei occhi, molti poveri gettare nel tesoro del tempio tutto ciò che avevano. Mi sono convinto che i poveri non hanno misura delle cose. Se sono cosi generosi con il tesoro del tempio, credo lo siano per l’incapacità di saper risparmiare. Non hanno neppure la cognizione del tempo che passa veloce e di conseguenza non pensano al domani, alla malattia che potrebbe colpirli, alla vecchiaia. Vivono una vita meschina racchiusa in una giornata; di conseguenza non hanno né passato né avvenire: tutto si risolve in un giorno. Fatte queste semplici premesse è possibile, certo con approssimazione, tracciare le linee essenziali del povero Lazzaro e del Ricco Epulone. Di quest’ultimo la storia non ha lasciato il nome in quanto, come dicevo poc’anzi, i ricchi sono talmente uguali ed ordinati che uno vale l’altro; per cui, descritto uno, si ha l’idea di tutti gli altri.
Cosi non avviene per i poveri, che sono uno diverso dall’altro. I poveri, infatti, organizzano le loro guerre private a secondo del grado di intelligenza. Prima, però, di parlare di Lazzaro il povero, è doveroso tracciare, sia pur brevemente, il profilo del ricco epulone ben sapendo che sarebbe sufficiente rimandare il lettore alla sua esperienza personale. Se mi permetto di descrivere costui, non è per mancanza di stima dei miei lettori, ma perché mi sembra che ciò renda più chiara la figura di Lazzaro (a cui ho pensato di dedicare questa memoria scritta).
Ho conosciuto personalmente il ricco epulone ed ora posso rivelarne il nome sentendomi più libero nei suoi confronti.
Costui si chiamava Egeo e si era trasferito da noi a Cafarnao già avanti con gli anni dopo essersi fatto costruire una casa prospiciente il nostro mare di Galilea. Aveva molti figli, non ricordo bene il numero, perché raramente venivano tutti insieme a trovare l’anziano Egeo; ma credo che neppure lui sapesse con precisione quanti figli avesse. Parlava sempre tanto volentieri delle sue ricchezze, dei suoi acciacchi, delle sue avventure con le donne e del suo fiuto nell’accumulare denaro. Aveva, inoltre, un alto senso dello Stato, di come doveva essere amministrato, guidato e sostenuto e, inoltre, vantava amicizie altolocate essendo imparentato con il sommo sacerdote Caifa. I figli, certo, li amava molto, ma per lui era cosa scontata quest’amore: infatti, si vantava di aver dato a ciascuno di essi denaro sufficiente da poter vivere senza preoccupazioni.
Qui a Cafarnao Egeo era amato e stimato da tutti perché essendo, come si dice dalle nostre parti, “una buona forchetta” invitava spesso i notabili della città alla sua mensa ed era a sua volta contraccambiato. D’altronde, ripeteva spesso: “Quando si raggiunge la mia età, dei cinque sensi rimane valido solo il gusto e, grazie a Dio, questo mi è stato dato in abbondanza”. Ed io posso con sicurezza affermare che Egeo non lesinava in lauti banchetti in quanto vi partecipai molte volte. Confesso comunque che, malgrado io fossi giovanissimo a quei tempi, non ho mai compreso come riuscisse Egeo a mangiare e a digerire tutto ciò che mangiava. Sembrava un leone affamato più che un uomo. I suoi banchetti duravano ore ed ore, certo intercalati da piccoli spettacoli, quasi sempre, magistralmente eseguiti dalle ragazze giovani e belle che gli procurava Anuk l’etiope. Spettacoli che facevano gridare di gioia Egeo. I ricchi sono semplici e battono le mani quando sono contenti; e l’epulone era un uomo contento e soddisfatto di sé. Quando il banchetto finiva e i commensali si riposavano, Egeo, sempre col volto ilare, li intratteneva, nutrendo la loro intelligenza con discorsi di altissima qualità, ma anche raccontando barzellette o cantando canzoncine.
Anche qui non voglio tediare oltre i miei illustri lettori sugli argomenti che Egeo trattava perché sono facilmente intuibili da ciò che ho esposto poc’anzi.
Viste le mie rudimentali qualità letterarie mi sarà, invece, difficile tratteggiare la vita di Lazzaro. Mi si scuserà, perciò, se non sarò sufficientemente chiaro.
Lazzaro era molto più giovane di Egeo e penso che avesse più o meno la mia età malgrado sin da ragazzo dimostrasse una precoce predisposizione all’invecchiamento. Sembra che fosse stato abbandonato dai suoi genitori in una discarica di immondizia a causa di una malformazione alla gamba destra che inspiegabilmente era cresciuta scheletrica e fragile da costringerlo a zoppicare, dondolando come ubriaco. A differenza del nobile Egeo, non credo abbia mai fatto in vita sua un’azione, non dico buona, ma neppure appena appena lodevole. Iniziò a rubare e a mentire sin da bambino e, con il trascorrere del tempo, divenne tanto furbo che era difficilissimo prevederne le azioni. Non credo di averlo mai visto frequentare la sinagoga e penso non abbia neppure osservato mai il sabato, anzi in città molti sostenevano, ed io con i più, che Lazzaro proprio di sabato visitava con assiduità i pollai riuscendo, con arti magiche, a far tacere i cani. Una mia vicina di casa, più volte derubata di uova e polli, sosteneva che Lazzaro era riuscito a farsi amare dal suo cane di guardia raccontandogli delle storie. Io, per fortuna, non ho mai creduto a quanto la donna asseriva, però ho visto spesso che i cani facevano sempre festa allo zoppo. Il fatto è che non lo si trovò mai sul luogo del delitto perché, malgrado la sua infermità, riusciva sempre a dileguarsi come una biscia. Non ebbe nella sua vita nessun interesse né religioso né culturale. A questo proposito ricordo il dolore del nostro rabbino nei suoi riguardi. Il pover’uomo, quando lo vedeva, scuoteva la testa costernato perché si sentiva incapace di trarre da Lazzaro qualcosa di buono. Una volta che il rabbino incontrò Lazzaro accoccolato ad un angolo della nostra città nella disdicevole funzione di succhiare un osso, credo rubato, per l’appunto, al cane del religioso e da questi apostrofato in modo cortese su quell’azione assai disdicevole, si sentì rispondere con sfrontatezza che non era lui che aveva tolto l’osso al cane ma che questi, il cielo mi perdoni se trascrivo l’impudenza dello zoppo, di sua spontanea volontà glielo aveva offerto.
Debbo riconoscere, comunque, che Lazzaro eccelleva nelle arti magiche di addestrare gli animali. Tutti, infatti, qui a Cafarnao sono pronti a giurare di averlo spesso visto parlare ai pesci e conversare con gli uccelli. Certo, sono cose dell’altro mondo, perché con gli uomini non parlava mai e, giustamente, era da costoro evitato per il cattivo odore che emanava. Unico gesto che faceva, anche con troppa frequenza, era quello di allungare la mano nel chiedere. Ma il suo, credetemi, non era un chiedere normale, era una specie di violenza che tutti noi si era costretti a subire perché, lo sciagurato, ti seguiva con insistenza, roteando i suoi occhi e trascinando la sua gamba, maleodorante al punto che la povera gente di Cafarnao era costretta a gettargli qualcosa. Se, poi, qualcuno disturbato da questo suo modo indecente di chiedere si rifiutava di esaudire la sua famelica voracità, allora Lazzaro iniziava a guaire come un cane ferito tanto da spaventare donne e bambini, per cui il furbastro otteneva con la paura ciò che altrimenti non avrebbe avuto. Ma a ripensarci bene era proprio malandato e zoppo come appariva? Io credo fermamente che in lui albergasse la finzione perché è inverosimile vederlo sempre claudicare e nello stesso tempo agilissimo nel districarsi nelle macchie di rovi al tempo delle more. Voi non mi crederete, ma una nuvola di cavallette affamate non poteva gareggiare con lui. Riusciva ad afferrare more tra i rovi più intricati lasciando le piante prive di ogni frutto. Tanto che si diceva: “è passato Lazzaro” per significare che tutto era finito.
Vivevano altri poveri a Cafarnao, ma ognuno era un mondo a sé. Vi era chi passava di casa in casa a chiedere del cibo, chi frequentava con assiduità il porto, chi la sinagoga e chi era disposto a fare piccoli lavori per ottenere il cibo. Solo Lazzaro, che io ricordi, era un non abitudinario per cui oggi lo si vedeva in un posto e l’indomani in un altro. Alcuni sostengono di averlo visto pregare al tempio di Gerusalemme, cosa molto improbabile, perché non si riesce a credere come abbia potuto raggiungere la città santa con quella gamba scheletrica.
Se la cosa, però, risultasse vera, intendo il recarsi a Gerusalemme, non credo che Lazzaro vi sia andato per pregare.
Lazzaro dormiva ora in una grotta, ora su un albero, ora in un fienile e, per quella sua strana magia, riusciva sempre, quando l’inverno spazzava con il suo gelido vento il nostro capo, ad ipnotizzare qualche animale, cani e gatti per lo più, ma anche asini, cavalli, mucche e vi è anche chi giura di averlo visto dormire con qualche lupo.
Come avrete capito, non è che io stimassi molto Egeo il ricco ma, con onestà, debbo confidarvi che neppure Lazzaro mi era molto simpatico per cui oggi, dopo tanti anni dalla morte di entrambi, mi ritrovo imbarazzato a scriverne soprattutto dopo che un certo Gesù, che alcuni veneravano come un grande Rabbi, li ha resi famosi.
Permettetemi che ve lo dica con molta sincerità: per me, sia Lazzaro sia il ricco epulone sono stati due personaggi come ve ne sono tanti dalle nostre parti e non meritavano tanto chiasso sulle loro storie. Ma la vita è cosi: quando uno entra nell’ingranaggio della notorietà non è più capace di uscirne fuori e dopo tanto tempo si continua a ricordare il racconto di quest’ultimo banchetto di Egeo l’epulone e di Lazzaro lo zoppo che raccoglie le briciole sotto il tavolo e della morte di entrambi. Per me accetto volentieri l’ignavia di cui mi sono nutrito, in tutti questi anni, e ringrazio Dio di non essere né come Egeo né come Lazzaro per cui mi attendo un giudizio clemente da parte dell’Altissimo.
P.S. Gesù diceva alle folle: “Quando vedete una nuvola salire a ponente, subito dite: Viene la pioggia, e cosi accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e cosi accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12, 54-57)
Vita e predicazione
Finite le feste natalizie, entrato il nuovo anno, passata la Befana, siamo tornati al tempo ordinario, senza luminarie abbaglianti, regali a cui pensare, pranzi e cenoni da preparare. E con i problemi quotidiani che si presentano puntuali, e forse un po’ monotoni, alla nostra attenzione. Problemi che trovano una soluzione e problemi che sembrano insolubili, situazioni a cui l’intelligenza trova vie d’uscita e altre in cui ci troviamo di fronte alla nostra impotenza, la nostra piccola fede vacilla e ci sembra di navigare in acque più tempestose che mai, ci è difficile, se non impossibile, credere ed essere testimoni della nostra fede.
Ma siamo chiamati a dare “ragione della speranza che è in noi”. Come farlo?
Mi viene in mente la lettura che l’avv. Boldon Zanetti, relatore al Convegno di formazione sul tema “Vita e Predicazione” dello scorso settembre a Brescia, ha dato dell’episodio raccontato dall’evangelista Luca dei Discepoli di Emmaus: la loro delusione per quanto avvenuto al loro Signore, viene colmata dall’insegnamento del viandante che si affianca a loro nel cammino di “fuga” da Gerusalemme, dove le loro speranze di un Messia erano miseramente naufragate con la sua morte in croce. Lo sconosciuto sta tutto il giorno con i due, sembra non avere fretta, come invece abbiamo noi, presi dalle tante occupazioni quotidiane, non si sente sprecato a dedicare la sua attenzione a due persone soltanto (nei nostri ambienti il numero limitato delle presenze è spesso considerato un fallimento!!!). E penso con gratitudine ai tanti “viandanti” che mi si affiancano ogni giorno e mi sono compagni nel cammino senza fretta, che mi testimoniano la loro fede e la loro fiducia, che spezzano il pane per me e poi svaniscono ai miei occhi, lasciandomi un cuore che “arde”.
“Quando la gioia di una scoperta, la gioia di un incontro è grande, non riusciamo a tenerla dentro di noi. E allora sgorga la necessità di testimoniarla, predicarla cioè, appunto, di “parlare di Dio”.
L’esigenza di parlare di Dio, testimoniarlo è sempre stata una consapevolezza della Chiesa, e ce l’ha ricordato recentemente il Papa nell’omelia tenuta lo scorso maggio durante il viaggio in Portogallo. “Bisogna che diventiate con me testimoni della risurrezione di Gesù. In effetti, se non sarete voi i suoi testimoni nel vostro ambiente chi lo sarà al vostro posto? Il cristiano è, nella Chiesa e con la Chiesa, un missionario di Cristo inviato nel mondo”.
Del resto la Bibbia è disseminata di indicazioni che il culto a Dio consiste nel rivolgersi alle realtà umane, alle situazioni del mondo.
“Imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. Sono parole di Dio dette tramite il profeta Isaia (Is.1,17) indicando che il culto gradito a Dio non può prescindere da queste attività.”
Così citava il relatore e mi conforta l’idea della preghiera “nell’ordinario”; la preghiera che si svolge compiendo bene i doveri del proprio stato (per me in questo tempo quello di figlia che assiste la mamma malata); il vivere in armonia con il Signore aiuta ad avvicinare l’altro, facendo azione di vera predicazione.
E concludeva:
“La nostra vita allora diventa predicazione; allora possiamo mettere un accento sul titolo del nostro incontro di oggi: La vita “è” predicazione.”
Chiudo davvero, con una frase di Sant’Agostino: “Volete dire le lodi a Dio? Siate voi stessi quella lode che si deve dire, e sarete la sua lode, se vivrete bene” (Agostino - Discorsi, 34 - Uff. letture, 3 settimana dopo Pasqua - martedì).